Lorenzo Tugnoli

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«I palestinesi sono un popolo molto sorridente. Come altri popoli esposti alla guerra da moltissimo tempo, hanno un grande senso dell’umorismo. Il centro della loro vita è il Sumud, la resistenza. Te la spiegano quando ti invitano a far due chiacchiere davanti a casa, tra sigarette e caffè. Per passare un bel momento insieme, tra un attacco armato e un probabile assalto dei coloni. Mi dicono sempre “possono prenderti tutto, anche la casa, ma non possono prenderti gli amici”».
Lorenzo Tugnoli è l’unico premio Pulitzer italiano, fotografo freelance per il Washington Post e vincitore di uno dei più grandi riconoscimenti internazionali, nel 2019, per aver raccontato lo Yemen martoriato dalla fame e da un’interminabile guerra civile. È anche stato tre volte World Press Photo, nel 2021 per la storica immagine dell’esplosione di Beirut, città che è la sua nuova casa.
Lavora in Medio Oriente da oltre dieci anni e lì ha conosciuto Francesca Recchia, ricercatrice di base per un decennio a Kabul, dove è stata, tra il resto, direttrice della Scuola di arte e architettura. Tugnoli e Recchia sono gli autori, occhio lui e curatrice lei, di una “mostra muta” sul conflitto israelo-palestinese, fissato in 40 immagini potentissime in bianco e nero, di vita (e distruzione) quotidiana dal 7 ottobre 2023.
Fa che sia un racconto è aperta fino al 2 giugno all’ex convento San Francesco di Bagnacavallo, nel Ravennate, uno dei centri più attivi dell’unione dei Comuni della Bassa Romagna. È una “mostra muta” perché senza didascalie (se non alla fine, quando al pubblico viene consegnata una fanzine), «per un’esperienza narrativa e immersiva che non vuole oggettivizzare, ma lascia alla coscienza di chi guarda il giudizio, partendo dai fatti». I palestinesi e gli israeliani non sono “etichettati”, non si distinguono tra loro. In primo piano in bianco e nero, su uno sfondo di macerie, sguardi di resistenza, esplosioni, rumori immaginati, ci sono uomini, donne, bambini che cercano scorci di normalità nella tensione e nel pericolo costante.
Poi, tra le stanze spoglie dell’ex edificio religioso di Bagnacavallo, si apre un percorso tra i “dadi della Storia”, parole come “Palestina, tregua, resistenza, violazioni, aiuti umanitari, territori occupati”. Eufemismi e censure, che offrono scorci ideologici e parziali e vengono quotidianamente utilizzati dal mondo per definire il conflitto. Equilibrismi verbali che portano all’assuefazione di fronte alla brutalità della guerra. «Il progetto espositivo vuole suscitare interrogativi – spiegano Tugnoli e Recchia – anche sull’importanza di difendere il diritto fondamentale alla corretta informazione».
Dall’assalto ai kibbutz e al Nova festival del 7 ottobre da parte di Hamas, Tugnoli ha viaggiato su e giù tra Israele, Cisgiordania e Gaza. Spesso accompagnando i reporter del Post. È uno dei pochi fotoreporter che ha avuto accesso alla Striscia invasa dall’esercito israeliano, con uno dei viaggi organizzati dall’Idf nella zona dell’ospedale di Al Shifa: «Non abbiamo potuto avere contatto con i gazawi, non li abbiamo mai visti – continua il fotografo –. Uno dei gravi problemi di questa guerra è che non abbiamo accesso alla storia. Non possiamo vedere, riportare».
Il titolo Fa che sia un racconto è preso a prestito dalla poesia di Refaat Alareer: «Se dovessi morire, fa che sia un racconto», monito a non dimenticare e invito a farsi testimoni. L’intellettuale palestinese è morto a Gaza in un raid israeliano all’inizio dell’escalation militare, nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 2023. Come un’invocazione, come una musica, il verso è il suono che accoglie i visitatori tra le scene senza parole di questo interminabile conflitto. Alla fine del percorso, si apre un labirinto con 140 testi lungo un corridoio: «Sono le convenzioni e i trattati internazionali volti a regolare i rapporti tra Palestina e Israele – spiega Recchia –, per un totale di 36.000 pagine consultabili dal pubblico, che avrebbero dovuto porre fine alla violenza».
A inchiodare il pubblico alla sola verità documentaristica è l’approccio degli autori: «Non c’è politica, non c’è attivismo, non ci sono ideologie. Abbiamo lavorato per sottrazione, ritrovando nelle scene e nei volti la possibilità di raccontare Nablus, Gerusalemme, Jenin, Hebron, Gaza, i coloni, i palestinesi», dice ancora Recchia. Chi guarda «fa semplicemente i conti con se stesso in modo onesto», continua. Sottolinea come la Palestina sia diventata «l’ultima goccia che fa traboccare il vaso del mondo che conoscevamo e che non c’è più, a partire dal diritto internazionale».
È come dice un proverbio locale: «Se spari a un cocomero, i semi si spargono ovunque e crescono». Il Pulitzer Tugnoli ha voluto dare «un volto più umano ai palestinesi, senza l’odore del sangue ad ogni costo – puntualizza –. Non mostro il bambino a cui hanno sparato alla testa. Non amo fotografare “il bel povero” e non sono affezionato alla tragedia e alle biografie che diventano un dramma». Sentirlo raccontare, stare a tu per tu con le sue immagini è un’esperienza umana e umanitaria, quasi un dialogo intimo con i soggetti ritratti. «Di alcuni rapiti, delle vittime israeliane del 7 ottobre – spiega – sappiamo molti dettagli. Non accade lo stesso sull’altro fronte».
Così come nelle altre guerre, a partire dall’Afghanistan, «l’approccio internazionale era molto chiaro, distingueva subito chi erano i buoni e chi i cattivi, i taleban. Qui, chi sta da una parte e chi dall’altra?». Anche i due popoli hanno destino diverso, il che rende il conflitto in Israele differente da ogni altro teatro di guerra: «La vita quotidiana di un palestinese accade e trova respiro e anche gioia tra un bombardamento e l’altro, tra un assalto e l’altro – tiene a dire Tugnoli –. Nascere in un campo ti dà la dimensione che la guerra non finirà mai, che questa è la tua normalità. L’occupazione non termina, è sempre stata lì. E allora ogni speranza si cancella. Sai che la gente muore continuamente, aspetti il prossimo funerale, non ti permetti di sognare e pensare al futuro, se non sai che arriverai vivo alla prossima settimana». A restare salda, però, è «la grande dignità dei palestinesi, la testa alta, la ricerca resistente di quel tempo che succede a margine della guerra». La vita, nonostante tutto.