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Con l’inaugurazione della Bella stagione, Piancastagnaio rende omaggio a una delle sue figure più luminose e meno celebrate dal grande pubblico: Dante Cappelletti. Studioso, critico teatrale, autore e pedagogo, Dante ha tracciato un solco profondo nella cultura italiana, partendo da un luogo piccolo ma denso di senso: le Tre Case, dove era nato e cresciuto.
Io stesso andavo là con mia madre, perché vi abitava zia Settima. Quando Dante passava, zia Settima lo osservava con rispetto e diceva: “va a studiare e a scrivere… scrivere”. Ripeteva quella parola come se fosse qualcosa di raro, importante, capace di cambiare la traiettoria di una vita. E in effetti scrivere, per Dante, non era un gesto privato, ma un modo per interrogare il mondo. Non si accontentava delle risposte facili: cercava il senso nelle pieghe, negli errori, nelle incertezze. Aveva quella pazienza profonda di chi sa che la verità va scavata, con cura e rigore.
Il suo teatro non era mai consolatorio. Era critico, politico, umano. Un luogo in cui il pubblico non veniva semplicemente intrattenuto, ma messo in gioco, chiamato a riflettere, a prendere posizione. Il palcoscenico era, per lui, uno spazio in cui portare la complessità del reale, le sue tensioni e le sue contraddizioni, in un dialogo continuo tra chi recita e chi assiste.
Ma Dante non ha mai dimenticato da dove veniva. È rimasto legato alla sua terra, l’Amiata, con dedizione vera. Ha collaborato con il Teatro Povero di Monticchiello, che ha rappresentato per lui una forma alta di teatro comunitario. Ha promosso il Festival Amiata Estate nei primi anni Ottanta, trasformando un territorio periferico in un centro culturale vivo e innovativo. In quelle esperienze, come nel lavoro con i carcerati di Rebibbia o nella promozione della comicità femminile – allora ancora marginale – emergeva la sua capacità di visione e il suo rigore etico.
Dante non cercava riconoscimenti. Pensava che la cultura dovesse servire a dare voce a chi non l’ha, a rompere i determinismi, a costruire spazi di libertà dove sembravano impossibili. Lo faceva con umiltà, con discrezione, ma con una forza interiore che lasciava il segno. Bastava osservarlo per capire che la sua profondità veniva da lontano, dalla fatica, dallo studio, dalla responsabilità verso gli altri.
Dante Cappelletti fu un ponte. Un ponte solido e necessario tra mondi che spesso si ignorano o si contrappongono:
– tra l’accademia e la scena, portando la riflessione teorica dentro i processi vivi della rappresentazione teatrale;
– tra la critica e la sperimentazione, accompagnando il nuovo teatro con uno sguardo lucido ma partecipe;
– tra la cultura popolare e l’intellettualità teatrale, senza mai cedere alla semplificazione né al tecnicismo.
Per questo può essere accostato a figure come Franco Quadri, con cui condivideva la curiosità per le forme più radicali del teatro contemporaneo; a Ferruccio Marotti, suo maestro, con cui condivise l’impegno universitario e la passione per la scena come luogo di conoscenza; a Franco Fortini, per il rigore etico e l’attenzione al rapporto tra cultura e società; a Giuliano Scabia, con il quale condivideva il radicamento nei territori e la tensione poetica verso il margine. Vicino anche a Roberto Bacci, che come lui ha creduto in un teatro di ricerca capace di parlare al mondo. E, per certi versi, Cappelletti può essere letto oggi come un precursore del lavoro di curatori contemporanei come Claudio Longhi, capaci di tenere insieme drammaturgia, politica culturale e visione pubblica del teatro.
Oggi, con La Bella stagione, non celebriamo nostalgie. Proviamo invece a proseguire quella tensione critica che Dante ha incarnato: la cultura come strumento per leggere e cambiare il presente, il teatro come luogo di interrogazione continua. Nulla è perduto, tutto va conquistato, diceva. Ed è questa la sua eredità più vera.