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25 Novembre 2022Èpossibile insegnare a vivere in comunità? Attraverso quali tecniche e quali strumenti? E, soprattutto, a che tipo di comunità è opportuno educare? Sono questi alcuni degli interrogativi più antichi attorno ai quali si sono arrovellati pedagoghi e insegnanti, più o meno dall’inizio della storia umana e della filosofia. Sono anche, alla soglia degli anni 2000, temi discussi sotto una luce del tutto nuova e radicale in un prezioso saggio pedagogico di bell hooks da poco tradotto in italiano con il titoloInsegnare comunità: una pedagogia della speranza. Edito dalla casa editrice Meltemi, con la traduzione di feminoska, il libro costituisce il secondo volume della “trilogia pedagogica” di bell hooks – attualmente in corso di traduzione in Italia nella collana “culture radicali”: i primi due volumi sono già usciti, il terzo è di prossima pubblicazione.
Teaching Community è un saggio a cavallo tra educazione e politica, apparso originariamente nel 2003, poco dopo gli attentati delle Torri Gemelle e la marea razzista che ha colpito gli Stati Uniti nel corso della successiva “Guerra al terrore” in Medio Oriente. Non per niente, il libro risente del clima teso di quegli anni, a cui è dedicata l’introduzione, nella quale sono richiamati i molti episodi di violenza razziale verificatisi in tutto il paese durante quel periodo. Posti a pietra angolare, quegli episodi rappresentano il punto di partenza di qualsivoglia riflessione sullo stato delle cose: l’America dove bell hooks è nata e vissuta si è rivelata alla soglia del 2000 (una volta di più) un paese in cui la diffidenza verso le persone non bianche è ancora la norma. Di qui, l’autrice ed ex professoressa universitaria ha sentito l’urgenza di ragionare sul tema dell’educazione alla comunità, sull’incontro tra culture come questione centrale per ogni lavoro educativo e politico. In un paese lacerato dal conflitto razziale, l’autrice si pone alcune domande chiave già richiamate in apertura: a quale comunità educare? Con quali strumenti?
Insegnare comunità nasce da un postulato volutamente anti-accademico: il sapere ha (e deve avere) un forte valore pratico.
Facciamo un passo indietro e allarghiamo lo sguardo sul precedente lavoro pedagogico di bell hooks per cogliere la cornice nella quale il testo qui in discussione si inscrive. Nel 1994 esce Teaching to transgress: education as the practice of freedom, un libro che partecipa al dibattito internazionale dell’epoca perché capace di incorporare nella riflessione pedagogica le prospettive di genere e gli studi decoloniali, in anni in cui si cominciavano a mettere in discussione le fondamenta della cultura occidentale maschiocentrica. Dentro e fuori l’accademia, nelle aule universitarie come nelle piazze cresceva l’insoddisfazione per un mondo a misura di maschio bianco cisgender. Per chi praticava il mestiere dell’educare, si trattava di portare quelle riflessioni ad incarnarsi nelle pratiche educative, per realizzare davvero «l’aula democratica»: uno spazio dove mettere in discussione il sapere costituito prodotto dalla cultura dominante (maschia, bianca e benestante). Così, in dialettica coi grandi maestri del passato, primo tra tutti un Paulo Freire non esente da critiche, l’opera di bell hooks proponeva un corollario di visioni, posture e strategie per dare corpo ad una pedagogia critica dal forte valore emancipativo. Si tratta(va), nell’ottica di Insegnare a trasgredire, di dare a tutti e a ciascuno, nelle classi come nelle strade, l’occasione di esprimersi, di costruire il proprio sapere, di prendere parola. Si trattava di farla finita con l’educazione tradizionale quale pratica prevalentemente trasmissiva che si era già abbondantemente rivelata, anche nell’esperienza dell’autrice, un esercizio avvilente, capace solo di generare frustrazione in tutti coloro i quali si presentassero all’appuntamento col sapere animati da una curiosa domanda sulla vita e sul mondo. Era il tempo di un radicale cambio di passo.
Da queste questioni riparte, dieci anni dopo, Insegnare comunità, che nasce da un postulato volutamente anti-accademico: il sapere ha (e deve avere) un forte valore pratico. Ed è questo un tema che torna a più riprese in tutto il saggio, che incardina l’esperienza di apprendimento e conoscenza nella più ampia esperienza che è la vita. Del resto, non vi è persona che non dia riprova di “utilizzare la conoscenza in modi significativi per arricchire la propria vita quotidiana”. Qui il sapere viene riconciliato con la vita, diviene strumento vivo e sensibile per elaborare l’esperienza dell’esistente, per provare a spiegare il reale. Così, per dirla con l’autore e attivista americano Parker Palmer citato nel testo, l’obiettivo della conoscenza è “la riunificazione e la ricostruzione di sé spezzati e mondi in frantumi” per “riconciliare il mondo con sé stesso”. Sì, ma quale sapere allora? Quale esperienza di apprendimento?
In questa scia, bell hooks definisce l’educazione come una pratica propriamente curativa capace di portarci a rivendicare noi stessi e il nostro posto nel mondo. Tale è il legame del sapere con la vita di ciascuno che l’idea di un insegnamento impositivo non può che rappresentare una perversione che comprime la naturale domanda di conoscenza che sgorga dall’esperienza della vita. Posto che l’educazione è una pratica in cui felicità e serietà possono andare insieme, non vi è ragione di rendere opprimente l’esperienza di apprendimento. Riprendendo il Freire di Pedagogy of the heart:
Solo una mente autoritaria può considerare l’atto educativo come un compito noioso. L’educazione democratica considera l’insegnamento, l’apprendimento e lo studio come compiti seri e impegnativi che non solo generano soddisfazione, ma sono piacevoli in sé e per sé.
La questione chiave è allora definire come si possa liberare il sapere, ri-ammettendo al suo interno anche le culture considerate “minori”, in una pratica di apprendimento che sappia essere gioiosa e vitale, a fronte di un sistema d’istruzione che è profondamente antiquato e conservatore, svilente tanto nei suoi metodi quanto nei suoi scopi. Gli attuali regimi educativi di cui bell hooks ci restituisce una lucida diagnosi, sono infatti, da sempre, sistemi di dominio istituzionalizzati: la scolarizzazione è stata usata storicamente per rinforzare i valori dominanti e imporre una cultura sulle altre. È una forma di disciplinamento delle identità subalterne.
Il presente sistema dei saperi “ufficiali”, ci viene detto nel primo capitolo, può essere meglio compreso grazie al concetto di “canone”. Il canone rappresenta il sapere “naturalizzato oggettivo”, ammissibile, presuntamente certificato, che garantisce ed è garantito dalle istituzioni. Così, tanto le maniere borghesi quanto le lingue coloniali – tanto per fare due esempi – sono insegnate per mezzo di sistemi d’istruzione che riducono il ventaglio degli apprendimenti possibili e rinforzano il blocco di potere dominante. Funzionale a questo scopo sono, tra le altre, le”strategie della vergogna” che contribuiscono a mantenere la subordinazione: nei luoghi della formazione sono ammesse una sola lingua, un solo sapere, un solo codice di condotta. È così che si tiene in piedi un sistema di valori volto a squalificare i saperi terzi, le persone marginali, le culture “minori”. Volto, insomma, a disciplinare.
Sebbene raramente affermata in modo esplicito, tale violenza è commessa in nome del mantenimento dell’egemonia patriarcale imperialista e della supremazia bianca nel mondo accademico. […] Finché le istituzioni educative continueranno ad essere ambienti in cui vengono perpetuate politiche di dominio, chi insegna si troverà ad affrontare il problema della vergogna.
Insegnare comunità già dal primo capitolo propone un’altra via, quella del riscatto di tutti quei saperi e quei linguaggi che il blocco di potere esclude a proprio vantaggio. Solo così l’aula può farsi davvero “progressista” e divenire uno spazio di libertà, un luogo in cui anche le esperienze “marginali” possono avere un ruolo nel processo di co-costruzione del sapere. Siamo qui agli antipodi dell’indottrinamento sui classici, in uno spazio-classe nel quale si impara a pensare criticamente e aprire la mente, lontano dai saperi prestabiliti e normativi.
Trattando genere, razza e classe come argomenti pratici, “quotidiani”, è possibile aumentare “la consapevolezza generale dell’importanza di questi temi” per la vita di ognuno.
Secondo l’autrice, si tratta, dunque, di riuscire ad espandere la “coscienza critica” per rifiutare le ideologie del dominio: serve “analizzare il mondo in cui viviamo”, fare critica dell’esistente, aprire a spazi di confronto e interpretazione del reale – ma sempre a partire dal proprio posizionamento. È qui forse la proposta più originale del libro: è solo discutendo in maniera critica e plurale di questioni relative all’imperialismo, alla razza, al genere, alla classe e alla sessualità, che riabilitiamo l’esperienza individuale e diamo riconoscimento e valore alla soggettività di ciascuno. Trattando di questi temi, chiunque ha qualcosa da dire a partire da sé. Ecco la connessione con “la vita vera”, con le domande che nascono dall’esperienza diretta di chi partecipa al processo formativo collettivo, dove ogni vissuto individuale ha diritto di dimora e di parola. Ed è proprio favorendo la presa di parola di ciascuno, che possiamo trasformare le esperienze di apprendimento e inceppare la macchina assimilazionista. Con un doppio vantaggio: fare impoteramento delle soggettività oppresse e favorire il riconoscimento e la valorizzazione della differenza da parte di chi detiene il privilegio. Proprio trattando genere, razza e classe come argomenti pratici, “quotidiani”, è possibile aumentare «la consapevolezza generale dell’importanza di questi temi» per la vita di ognuno. Ed è chiaro che, senza questa consapevolezza, non si creerebbero le condizioni per alcun cambiamento socio-politico concreto.
Docenti e professori universitari che hanno avuto il coraggio di esaminare il modo in cui la supremazia bianca modella il nostro pensiero, sia nel contenuto sia nel metodo d’insegnamento, hanno dato vita a una sottocultura rivoluzionaria, seppur minoritaria, all’interno del sistema educativo.
A questo punto il legame con la questione razziale e la domanda sulla comunità appare tanto più evidente. Nel terzo capitolo, intitolato Parlare di razza e razzismo – uno dei più densi del libro – risulta chiaro come, sebbene sia “semplice accettare gli scritti critici sul razzismo”, ben più difficile è “trovare modi costruttivi per parlare di supremazia bianca, per immaginare azioni costruttive che vadano oltre le chiacchiere”. Per quanto, infatti, le classi bianche dominanti siano teoricamente educate ad essere anti-razziste, esse non hanno interiorizzato comportamenti fattualmente inclusivi dal momento che vivono segregati nella propria cultura, in contatto solo con persone e idee che li rispecchiano.
Siamo un paese di persone che affermano di voler vedere la fine del razzismo e della discriminazione razziale, eppure è evidente che esiste un enorme divario tra teoria e pratica.
Se dunque è “ormai disponibile un corpus di teorie critiche che spiega tutti i meccanismi del pensiero suprematista bianco e del razzismo” è pur vero che “le spiegazioni da sole non ci conducono alla pratica di una comunità d’amore”. Dove attivare, allora, questi processi di decostruzione e ricostruzione per colmare lo scarto tra pensiero e azione? Come riportare nel quotidiano il discorso decoloniale e decostruttivista? Le pratiche di insegnamento sono qui chiamate a un appuntamento fondamentale: quello di farsi finalmente momento di confronto tra identità diverse. Se vogliamo favorire il cambiamento, ossia se vogliamo fare politica, dobbiamo essere disposti a praticare un’educazione dialogica nella quale le identità (che sono sempre, inevitabilmente, politiche) entrino nel processo di apprendimento. Così, le aule, i laboratori, le università, gli incontri pubblici, si configurano quali luoghi/momenti nei quali attivare processi di scambio per mettere alla prova i saperi dati per acquisiti producendo nuove consapevolezze che sostengono, in ultima istanza, cambiamenti strategici.
Creare comunità inclusive significa favorire un’apertura radicale, nella quale la volontà di esplorare prospettive diverse crea un’“intimità che non annulla la differenza”.
Ecco allora quello che Insegnare comunità, riprendendo la professoressa Judith Simmer Brown, propone come un metodo possibile per aprire le comunità, a partire dagli studenti: non “costringerli a sostenere teorie e concetti solidi, ma piuttosto incoraggiare effettivamente il processo, l’indagine che esso [il sapere, ndr] richiede e i tempi dell’ignoranza, con tutte le incertezze che ne conseguono. Questo è davvero ciò che supporta l’approfondimento. Questa è apertura”. Creare comunità inclusive significa, in definitiva, favorire in tutti i contesti di apprendimento uno sconfinamento che consiste in un’apertura radicale, nella quale la volontà di esplorare prospettive sociali e culturali diverse crea un’“intimità che non annulla la differenza”.
Gli esseri umani cambiano idea quando vivono la vicinanza e si confrontano. Così nell’ascoltare la diversità, nel discutere e nel dissentire si producono processi di apprendimento con gli altri in un dialogo che deve rimanere acceso e aperto. È questa, in fondo, la formula più semplice e sincera dell’educazione come pratica mutualistica di liberazione. È questa per bell hooks l’esperienza che predispone alla vita in comune dove ogni essere umano, di fronte ad un suo simile, si riconosca come pari.