Omar ha dieci anni, e aspetta che sua madre torni a trovarlo, forse a prenderlo. Sen, suo fratello, cerca di tranquillizzarlo, ma i suoi sono tentativi vani. Nada di anni ne ha undici, e il suo, di fratello, è grande abbastanza per partire per il fronte. Sono solo dei bambini, ma il mondo li ha obbligati a crescere in fretta, a diventare degli adulti, loro malgrado. Nella Sarajevo del 1992, infatti, posto per l’infanzia non ce n’è, e per tirarli via dal conflitto che impazza e martoria il paese, una mattina d’estate, i ragazzini vengono portati via, su un pullman. Arrivano in Italia, paese per loro estraneo e straniero. Ma cosa fare della vita quando le persone che ami non sono riuscite a salvarsi?
Il tuo romanzo – Mi limitavo ad amare te, Feltrinelli, 2023 – è sull’ultima guerra alle porte d’Europa, quella in Bosnia, ed è uscito a un anno dall’invasione russa dell’Ucraina. Una coincidenza piuttosto forte, a ben pensarci.
Sì, l’innesco narrativo è la guerra in Bosnia, ma la storia si svolge soprattutto in Italia e dura quasi vent’anni. Quando Putin ha invaso l’Ucraina, avevo quasi finito il romanzo e la notizia dello scoppio della guerra mi ha fatto impressione. In quel periodo capitava ancora che incontrassi i ragazzi delle scuole per parlare de Le assaggiatrici e, inevitabilmente, la conversazione si spostava sul conflitto in Ucraina. Non solo gli studenti ma spesso anche i professori la definivano «la prima guerra in Europa dopo la Seconda guerra mondiale». E io facevo notare che le guerre nei Balcani erano durate dieci anni, ed erano state vicinissime, nel cuore dell’Europa. È evidente che sono state dimenticate.
Le guerre nei Balcani, tra l’altro, hanno diverse analogie con il conflitto in Ucraina.
Predrag Matvejević, intellettuale jugoslavo, ha definito la guerra in Bosnia una «guerra di memoria», riferendosi al modo in cui la memoria collettiva, la storia, erano state manipolate per radicalizzare l’odio. Ecco, avviene anche nel caso del conflitto in Ucraina e mi pare una somiglianza forte.
Certi scrittori hanno capacità predittive, pare riescano ad anticipare i tempi. È il tuo caso?
Alla presentazione romana Nicola Lagioia ha detto di Mi limitavo ad amare te la stessa cosa. Oppure è che certi scrittori portano sfiga! (ride, ndr). Mi era già capitato con Le assaggiatrici. Da quando avevo immaginato di scriverlo (2014) al momento in cui è uscito (2018) qualcosa in Europa era cambiato, i nazionalismi si erano rafforzati, c’era stata una forte virata a destra, diverse democrazie traballavano.
Hai capacità predittive, quindi?
Credo sia solo che la storia, purtroppo, si ripete.
Sia in Le assaggiatrici sia in Mi limitavo ad amare te parti da un fenomeno collettivo per entrare, poi, nella vita intima dei tuoi personaggi. Perché?
In realtà è il contrario. Io parto da una storia, da uno o più personaggi, da una condizione umana. Non parto mai dall’evento storico. Parto da quella precisa condizione umana, che è determinata dalla storia perché la vita di ciascun individuo è anche determinata dall’epoca e dal territorio che l’individuo abita.
Cosa ti interessava dei ragazzini tuoi protagonisti?
Lo strappo. Dalla madre, dalla famiglia, dalla loro terra d’origine. Si sono salvati dalla guerra venendo in Italia, ma hanno perso tutto: la loro identità, il mondo che conoscevano, persino le madri. Questa contraddizione mi interessava. Salvarsi senza che si salvino anche le persone che ami è davvero una forma di salvezza? Scrivendo, mi chiedevo: io come avrei reagito, cosa avrei fatto al posto loro?
Risposta?
Non posso saperlo, ovviamente, ma so che da piccola ero devota a mia madre. Anche se amavo molto andare a scuola e stare con gli altri, anche se ero molto socievole, ovunque fossi a un certo punto mi ricordavo che lei non c’era, e stavo male.
La ragione di questa ansia da separazione da tua madre?
Immaginavo che fosse rapita mentre io non c’ero e non potevo proteggerla. Per questo credo che non avrei voluto salvarmi, senza di lei, esattamente come mi hanno detto alcuni di quei bambini bosniaci, ora adulti, con i quali ho parlato.
Torniamo alla storia. Hai detto che ciascun individuo ne è determinato, ti chiedo quindi: da cosa ti senti determinata, tu?
Credo debba passare del tempo perché si possa capire, serve la giusta distanza. È comprensibile solo in retrospettiva.
Guardandoti indietro, invece?
L’11 settembre è stato per la mia generazione uno spartiacque: eravamo cresciuti nella convinzione di essere destinati ormai a un mondo di pace, ma era un inganno. Quando frequentavo la quinta elementare, nel 1987, a scuola facevamo laboratori sull’Europa unita, nel 1989 cadde il muro di Berlino, e pochi anni dopo, nel telefilm sulla sua vita da universitaria Cristina, l’Europa siamo noi, Cristina D’avena cantava nella sigla: «l’Europa siamo noi, milioni di persone, l’Europa siamo noi, un’unica nazione». Insomma, mi avevano convinta che avrei vissuto in un mondo, o almeno in una parte del mondo, ormai al riparo. L’11 settembre fu il primo giorno del mio primo lavoro a Roma, ero in una stanza con altri stagisti quando, sugli schermi dei nostri computer, comparvero le immagini dell’attentato. E tornò l’idea di pericolo, di minaccia, di conflitto fra popoli. Non eravamo al riparo.
A proposito di strappo – ne parli spesso, in merito al romanzo. Ce ne sono stati altri nella tua vita?
Credo si possa considerare uno strappo il viaggio con cui, nel 1987, la mia famiglia emigrò da Reggio Calabria alla Liguria. A giudicare dai viaggi che costellano i miei romanzi, da tutti quei miei personaggi sradicati, credo di poter dire che la separazione dalla terra d’origine – per quanto non sia stata drammatica, come per esempio quella dei bambini di Mi limitavo ad amare te – mi abbia segnata. A Reggio Calabria ero sempre circondata da nonni, zii e cugini, mentre in Liguria eravamo solo noi quattro. E io ero diversa dai miei compagni: per il mio accento, perché avevo il grembiule blu anziché bianco, perché ero abituata a manifestare l’affetto fisicamente (ancora oggi, quando torno a Reggio, i miei cugini mi riempiono di baci e abbracci). Una volta, pochi mesi dopo il mio arrivo in Liguria, salutai una compagna di classe con un bacio sulla guancia, e lei si ritrasse: “sei lesbica?”. Io neppure sapevo che cosa significasse quella parola.
Torniamo a tua madre, e all’ansia da separazione. Come l’hai superata?
Il mondo era attraente e io ne ero attratta. Non ero tanto una bambina che non si staccava, ero piuttosto una bambina che non scordava, che voleva sapere sempre che cosa succedeva agli altri quando non c’erano. E poi ho accumulato sensi di colpa inadeguati, come capita a molti, e da adulta ne ho fatto uno dei temi dell’analisi.
Verso tuo padre quest’ansia da separazione non l’avvertivi?
Mio padre è cresciuto con l’idea che i sentimenti non dovessero essere manifestati, soprattutto con i figli e in particolare con le figlie femmine.
Però alla fine la curiosità sul mondo ha vinto.
A diciott’anni me ne sono andata e non sono più tornata. Come dice Pavese, crescere vuol dire andarsene. Forse era stato così per i miei genitori ed è stato di sicuro così per me.
Nel tuo romanzo i figli vedono per la prima volta i genitori come persone vere e proprie, momento che, credo, è tra le prime tappe verso l’adultità. Perché hai voluto raccontarlo?
Perché fa parte della vita. Per me l’incanto si è spezzato presto: quando i miei genitori sono partiti, lasciando tutto ciò che conoscevano, erano giovani e io ero piccola. Li ho visti deboli, smarriti, tutt’altro che dotati di super poteri, non ho mai pensato che fossero i miei eroi, mi preoccupavo di sostenerli, di rincuorarli. Ero una bambina molto attenta, e loro non mi hanno mai nascosto niente, non erano quel tipo di genitori che di certe cose parlano solo quando i figli dormono. D’altronde, io ascoltavo e capivo tutto, ma sapevo anche di dover fingere di non capire.
Eri madre dei tuoi genitori fin da bambina, mi sembra di capire.
Sì, ma più di mia madre che di mio padre.
Altro fulcro del romanzo: l’impossibilità di conoscere chi abbiamo accanto, chiunque esso sia, in modo completo.
È una delle mie ossessioni: non conosciamo mai nessuno davvero. Ne Le assaggiatrici scrivevo che «è solo ignorando la vita degli altri mentre scorre, è solo grazie a questa fisiologica carenza di informazioni, che possiamo non impazzire».
Ci sono diversi episodi violenti nel romanzo, e la maggior parte ha a che fare con le donne rimaste in Bosnia in balìa dei soldati. Il corpo, il corpo come campo di battaglia nella battaglia: aldilà del dato storico, perché hai raccontato questa sopraffazione?
La violenza è indubbiamente un’altra delle mie ossessioni di scrittrice. Ne Il corpo docile – (Einaudi 2013 ndr) – Milena pensa: «È così intima la violenza, non ha paura del corpo dell’altro, non ha paura del contatto tra i corpi. È intima la violenza, dice all’altro ti riconosco, dice esisti, questo è il tuo corpo». Milena arriva addirittura a pensare che: «nella violenza torniamo tutti umani».
È un’affermazione di esistenza?
No, ha a che vedere con il fatto che ognuno di noi può infliggere e provare dolore perché il dolore esiste. La possibilità del male è determinata dalla fragilità del corpo, dal fatto che il corpo può subirlo. La violenza, in qualche modo, contempla e accetta questa finitudine, questa imperfezione, perché ne ha bisogno, perché se ne serve.
Siamo effimeri.
Sì, ed è inaccettabile. Possiamo morire per un nonnulla, una botta in testa, il morso di un insetto, un virus: seppure incapace di scrivere la Commedia, di comporre Le variazioni Goldberg, di dipingere la Cappella Sistina, il virus può vincere su di noi. Per la natura la vita umana non è superiore a quella di qualunque altro essere vivente. La cultura però – ed è questa la sua grandezza – le attribuisce un valore assoluto, nonostante sia così fragile, così facilmente annientabile.
Abbiamo parlato molto di dolore e, in effetti, i ragazzini del tuo romanzo sono legati tra loro da una condizione di sofferenza. Che farci, col dolore?
Per esempio si può scrivere. O almeno è quello che col dolore faccio io: scrivo.