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5 Maggio 2024
L’anzianità non inizia a ottant’anni, ma molto prima. E capirlo serve a vivere felici, senza pretendere troppo da noi stessi. Ce lo insegna Darwin.
Questo articolo è un estratto da “La seconda onda“, di Arthur C. Brooks. Pubblicato da Aboca Edizioni. Ringraziamo l’autore e l’editore per la gentile concessione.
di Arthur C. Brooks
Chi sono i cinque più grandi scienziati mai vissuti? È il genere di domanda su cui la gente ama discutere negli angoli più nerd di internet che con ogni probabilità non ti capita mai di visitare. Non intendo portartici io, ma che tu sia o meno un appassionato di scienza, la lista non può che includere Charles Darwin. Oggi è ricordato come l’uomo che ha cambiato in modo completo e permanente il nostro modo di intendere la biologia. La sua influenza è stata così profonda che dalla sua morte, avvenuta nel 1882, la sua fama non ha mai vacillato.
Eppure Darwin morì considerando il suo percorso professionale un buco nell’acqua. Ricapitoliamo. I genitori di Darwin speravano che diventasse un ecclesiastico, carriera per cui lui aveva poco entusiasmo e propensione. Per questo motivo era uno studente svogliato. Il suo vero amore era la scienza, che lo faceva sentire vivo e felice. Perciò quando nel 1831, a ventidue anni, fu invitato a partecipare al viaggio della nave Beagle, impegnata in un’indagine scientifica attorno al mondo, per lui fu l’occasione di una vita: in seguito lo definì l’evento di gran lunga più importante della sua esistenza. Nei successivi cinque anni passati a bordo; raccolse campioni di piante e animali esotici, mandandoli in Inghilterra e affascinando tanto gli scienziati quanto il pubblico generico.
L’impresa fu abbastanza importante da regalargli una certa notorietà. Quando tornò a casa, a ventisette anni, mise in subbuglio il mondo intellettuale con la sua teoria della selezione naturale, ovvero l’idea che nel corso delle generazioni le specie si modificassero e adattassero, generando così, dopo centinaia di milioni di anni, la molteplicità di piante e animali che vediamo oggi. Nei successivi trent’anni, Darwin elaboro la sua teoria e la espose in libri e saggi, mentre la sua reputazione continuava a crescere. Nel 1859, a cinquant’anni, pubblicò il suo capolavoro e il coronamento della sua carriera, L’origine delle specie, un bestseller che spiegava la teoria dell’evoluzione, e che rese il suo nome immortale, cambiando per sempre la scienza.
A quel punto, però, da una prospettiva creativa il lavoro di Darwin ristagnava: nella sua ricerca era andato a sbattere contro un muro e non riusciva ad aprire nuove brecce. Piu o meno nello stesso periodo, un monaco ceco di nome Gregor Mendel scoprì ciò di cui Darwin avrebbe avuto bisogno per continuare i suoi studi: la teoria della genetica. Purtroppo l’opera di Mendel fu pubblicata su un’oscura rivista accademica tedesca, e Darwin non ebbe perciò mai occasione di vederla, ma in ogni caso (ricordiamo che era uno studente poco motivato) non avrebbe avuto le competenze matematiche o linguistiche per comprenderla. Dopo L’origine delle specie, durante la maturità, Darwin scrisse molti altri libri, ma nessuno conteneva scoperte altrettanto epocali. Nei suoi ultimi anni Darwin era ancora molto famoso – tanto che dopo la morte fu sepolto come eroe nazionale nell’Abbazia di Westminster – ma era sempre più insoddisfatto della sua vita, e considerava la sua opera inadeguata e poco originale. “Alla mia età non ho né il cuore né la forza di iniziare nuove ricerche che possono durare anni, e questa è la sola cosa che mi piace fare” confessò a un amico. “Ho tutto il necessario per essere felice e contento, ma la vita e diventata molto faticosa per me”.
Darwin aveva avuto successo secondo gli standard comuni, che pero erano surclassati dai suoi. Sapeva che, per i parametri mondani, aveva tutto quel che serviva a renderlo “felice e contento”, cionondimeno sosteneva che la sua fama e la sua fortuna fossero divenute per lui “come paglia rimasticata”.
Solo progressi e nuovi successi come quelli di cui aveva goduto in passato avrebbero potuto rincuorarlo, e questi ormai andavano al di là delle sue capacità. Dunque, negli anni del suo declino, era condannato all’infelicità. A detta di tutti, la malinconia di Darwin non si placò finché non mori, a settantatré anni.
Mi piacerebbe poterti dire che il declino e l’infelicità di Darwin in tarda età fossero rari come le sue conquiste, ma non è così. Al contrario, erano del tutto normali, e perfettamente puntuali.
La sorprendente precocità del declino
A meno che tu non segua la formula di James Dean – “Vivi in fretta, muori giovane, lascia un cadavere attraente” – sai che il tuo declino professionale, fisico e mentale è inevitabile. Probabilmente pensi, però, che sia molto, molto lontano. Non sei il solo a vederla così. Molte persone hanno la tacita convinzione che l’invecchiamento e i suoi effetti sul rendimento professionale siano qualcosa che accadrà nel lontano futuro. Questo atteggiamento spiega diversi risultati bizzarri nei sondaggi. Per esempio, quando nel 2009 fu chiesto agli americani che cosa significasse “essere anziani”, la risposta più popolare fu “compiere ottantacinque anni”. In altre parole, l’americano medio (che ha un’aspettativa di vita di settantanove anni) muore sei anni prima di entrare nell’età anziana.
Ecco la realtà: in quasi ogni professione molto qualificata, il declino si colloca tra la fine della trentina e l’inizio della cinquantina.
Mi dispiace, so che fa male. E il peggio deve ancora venire: più si è realizzati al picco della propria carriera, più pronunciato appare il declino una volta che inizia. È ovvio che non mi crederai sulla parola, quindi diamo un’occhiata alle prove.
Partiremo dal declino più smaccato e più precoce: quello degli atleti. Chi pratica uno sport che richiede forza esplosiva o scatti raggiunge le massime prestazioni dai venti ai ventisette anni, mentre quelli che praticano sport di resistenza hanno il picco un po’ più tardi, ma sempre da giovani adulti. Non sorprende: nessuno si aspetta che un atleta serio resti competitivo fino ai sessant’anni, e molti degli atleti con cui ho parlato per questo libro (non ci sono sondaggi che chiedano quando le persone si aspettano di sperimentare il proprio declino fisico, quindi ho cominciato a farlo in via informale) mettono in conto di dover trovare un nuovo mestiere al volgere della trentina. Non amano questa situazione, ma di solito la guardano in faccia.
È tutta un’altra storia per quelli che oggi chiamiamo “lavoratori della conoscenza”, ovvero la maggior parte dei lettori di questo libro, se dovessi tirare a indovinare. Tra le persone con professioni che richiedono idee e intelletto invece di capacità atletiche e notevole forza fisica, quasi nessuno ammette di aspettarsi il declino prima dei settanta; alcuni ancora dopo.
A differenza degli atleti, pero, loro non guardano in faccia la realtà.
Prendiamo gli scienziati. Benjamin Jones, un professore di Strategia e imprenditorialità alla Kellogg School of Management della Northwestern University, ha passato anni a studiare il momento in cui le persone hanno più probabilità di fare scoperte scientifiche meritevoli di premi e invenzioni importanti. Guardando ai maggiori inventori e ai vincitori del Nobel per oltre un secolo, Jones rileva che l’età più frequente delle grandi scoperte è la fine della trentina. Mostra che le possibilità di compiere una scoperta importante aumentano regolarmente nel corso della ventina e della trentina, per poi ridursi drasticamente nei quaranta, cinquanta e sessanta. Inutile dire che ci sono eccezioni. Ma la probabilità di imbattersi in un’innovazione importante a settant’anni equivale in sostanza a quella che si ha a vent’anni: attorno allo zero.
Il declino è inevitabile. Punto. Ma l’invecchiamento non è solo un disastro (e non mi riferisco a eventuali nipotini o appartamenti in Florida, anche se non devono essere male). Anzi, ci sono alcuni modi specifici in cui diventiamo naturalmente più furbi e abili. Il trucco per migliorare con l’età e capire, sviluppare ed esercitare questi nuovi punti di forza. Se ci riesci potrai trasformare il declino in un’incredibile fonte di nuova felicità.
Hai mai notato che le persone, invecchiando, non diventano quasi mai meno eloquenti? Tendono, anzi, ad avere un vocabolario più ricco rispetto al passato. Questo comporta una serie di capacità. Sono migliori giocatori di Scarabeo, per esempio, e possono ottenere buoni risultati con le lingue straniere, non nel plasmare un accento perfetto, ma nel costruire il vocabolario e capire la grammatica. Diversi studi hanno fatto emergere queste osservazioni: le persone mantengono e accrescono il loro lessico – nella lingua madre e nelle lingue straniere – fino alla fine della loro vita.
Le gioie della seconda onda
L’esistenza della seconda onda è un’ottima notizia per tutti noi. Prima di tutto, adesso abbiamo una spiegazione per il tipico calo delle capacità dopo i quaranta o i cinquant’anni.
In altre parole, se hai la mia età o l’hai superata, non sei solo. Secondo, c’è un’altra onda da cavalcare per raggiungere il successo, che favorisce le persone più mature. Terzo, secondo molte stime, quello che si può ottenere in questa seconda onda è più prezioso (anche se meno redditizio e prestigioso) di quello che si ottiene nella prima. In fondo, come si suol dire: “La conoscenza significa sapere che un pomodoro è un frutto; la saggezza significa sapere che e meglio non metterlo nella macedonia”. O, in maniera più biblica: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio”. Se stai sperimentando un declino nell’intelligenza fluida – e se hai la mia età, è cosi di sicuro – non significa che tu sia spacciato. Significa che è tempo di saltare giù dall’onda dell’intelligenza fluida e salire su quella dell’intelligenza cristallizzata. Quelli che combattono contro il tempo cercano di domare la vecchia onda invece di salire sulla nuova. Ma farlo è pressoché impossibile, per questo la gente e cosi frustrata, e in genere fallisce.
E allora perché le persone continuano a provarci? Le ragioni sono due: prima di tutto, non sanno che è normale che la loro curva del successo punti verso il basso: pensano di avere qualcosa che non va. E secondo, non sanno che esiste una nuova onda, suscettibile di portarli a un nuovo genere di successo. E anche se sospettano che da qualche parte ci sia, spiccare il salto può essere faticoso e inquietante. Ci vogliono coraggio e resistenza per apportare cambiamenti nelle nostre vite e nelle nostre carriere, per assomigliare il più possibile a un insegnante, qualsiasi cosa significhi nel nostro campo specifico. Non tutti vogliono farlo. Molti si rifiutano. Ma per quelli che compiono il salto, la ricompensa è quasi sempre enorme. Intervistando le persone per questo libro, ho scoperto che inevitabilmente quelle più felici e gratificate dopo i cinquanta, sessanta e settanta sono quelle che hanno avuto il coraggio di saltare.
Arthur C. Brooks è docente ad Harvard, autore di numerosi bestseller ed editorialista del “The Atlantic”. Il suo libro La seconda onda sarà disponibile in Italia dal 22 marzo per Aboca Edizioni