L’intento era di compiere un massacro di civili alla vigilia di Rosh Ha-Shanà, il Capodanno ebraico che inizia questa sera, durante il quale ogni famiglia si riunisce per mangiare assieme mele intinte nel miele. E quasi in contemporanea con i missili iraniani, la stessa area di Tel Aviv è stata teatro di un grave attentato a Jaffa, a Sud della metropoli.
Quando Teheran ha rivendicato l’attacco dal cielo ha parlato di «vendetta per l’uccisione di Hassan Nasrallah e Ismail Haniyeh» — i leader di Hezbollah e Hamas eliminati da Israele — ed ha affidato la spiegazione ai Guardiani della rivoluzione, l’efficiente corpo militare che risponde solo all’ayatollah Ali Khamenei ed a cui appartiene la “Forza Al Quds”, che addestra ed arma tutte le organizzazione terroristiche che bersagliano Israele dall’indomani del 7 ottobre scorso: Hamas da Gaza, Hezbollah dal Libano e dalla Siria, Jihad Islamica dalla West Bank e Gaza, Houthi dallo Yemen e Kataib Hezbollah dall’Iraq. Questo è il motivo per cui il portavoce del Dipartimento di Stato ha definito l’attacco iraniano «un’aggressione da Stato a Stato per difendere un’organizzazione terroristica» come Hezbollah.
Se a questo scenario aggiungiamo gli scontri di terra non dichiarati ma già in corso in più località nel Sud del Libano fra la divisione 98 dell’Idf e la forza scelta Radwan degli Hezbollah, la mappa della prima guerra aperta fra Iran e Israele è completa. E copre l’intero Medio Oriente, dal Mediterraneo al Golfo Persico. Se il conflitto arabo-israeliano ha tenuto banco dal 1948 — passando in un cammino di tragedie dalle guerre agli Accordi di Abramo — ora siamo nella stagione del conflitto israelo-iraniano.
È una guerra rimasta sottotraccia dopo il pogrom di Hamas del 7 ottobre ma ora viene allo scoperto in maniera feroce: un anno fa la forza Radwan aveva piani, uomini, armi, tecnologie e tunnel per dilagare nella Galilea, ma non riuscì ad aprire il secondo fronte di terra — come il capo di Hamas Yahia Sinwar si aspettava — perché Israele iniziò una campagna di attacchi aerei contro i suoi ufficiali che li ha decimati fino all’esplosione dei cercapersone ed all’eliminazione di Nasrallah.
Con Hezbollah indebolita, è l’Iran a prendere direttamente laguida delle operazioni militari contro lo Stato ebraico. Lo fa perché il Medio Oriente è una terra di sangue e onore che punisce i deboli: senza poter più contare su Hamas ed Hezbollah, gli ayatollah temono di essere loro ad apparire vulnerabili agli occhi di milizie ed alleati davanti alla coalizione di fatto fra Paesi sunniti ed israeliani, sostenuta dagli Stati Uniti. L’Iran degli ayatollah vuole colpire il cuore di Israele per dimostrare di essere ancora credibile nel progetto pan-sciita che punta all’egemonia regionale.
Da qui i due interrogativi che ora sono davanti a noi. Il primo riguarda ciò che avverrà a Teheran: la scelta di lanciare piogge di missili contro Israele è stata fatta, per due volte in cinque mesi, dal Leader Supremo della rivoluzione ed eseguita dai fedelissimi pasdaran ma rappresenta davvero tutto il regime sciita oppure svela un indebolimento strategico senza precedenti della teocrazia alle prese con un’economia in decomposizione ed una rivolta delle donne contro l’hijab che non riesce a frenare? Il secondo invece investe Israele: dopo essere riuscito a mettere sulla difensiva, per la prima volta in 18 anni, Hezbollah e Hamas, coglierà l’occasione di rispondere direttamente all’Iran attaccando basi militari e siti nucleari o sceglierà la de-escalation suggerita dall’uscente presidente Biden? La somma dei due quesiti descrive lo scenario di guerra in Medio Oriente: la resa dei conti fra lo Stato ebraico e l’Iran sciita è in pieno svolgimento. E terminerà solo quando i contendenti avranno raggiunto un nuovo equilibrio di forza.
Ma sarebbe un grave errore pensare che il duello militare fra le maggiori potenze della regione riguardi solo il Medio Oriente: se gli Stati Uniti hanno dato pieno sostegno politico-militare a Israele e la Russia è stata informata in anticipo da Teheran sulla pioggia di missili è perché Washington e Mosca duellano fra Hormuz e Tel Aviv proprio come avviene lungo le sponde del Dnepr. In palio c’è l’architettura di sicurezza globale, che il Cremlino vuole ridefinire sostenendo ovunque chiunque aggredisce una democrazia. Per l’Europa che persegue la stabilità della regione e crede nella coesistenza fra sicurezza di Israele e diritti dei palestinesi la scelta non potrebbe essere più cristallina: gli Accordi di Abramo portano a quella convivenza fra popoli e nazioni che il regime degli ayatollah considera il proprio peggior nemico.