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Il raid israeliano su Doha di questa settimana ha segnato un punto di svolta drammatico nei rapporti tra Israele e le monarchie del Golfo. L’attacco, mirato a colpire i vertici di Hamas riuniti in Qatar per discutere una proposta di cessate il fuoco, ha provocato vittime anche tra i civili e ha scatenato una reazione immediata del governo qatariota, che ha parlato di “palese violazione della sovranità nazionale”.
L’episodio non è solo un fatto militare: rischia di minare la strategia di lungo periodo con cui Israele aveva costruito legami politici ed economici nella regione, dagli Accordi di Abramo alla cooperazione tacita con Arabia Saudita e Emirati. Colpire nel cuore di un Paese che funge da mediatore riconosciuto a livello internazionale — e che ospita una base militare statunitense — significa alzare il livello dello scontro, mettendo a rischio la stessa architettura diplomatica che ha consentito finora di evitare un conflitto regionale aperto.
Nei Paesi del Golfo il malumore cresce. Riyadh e Abu Dhabi, pur senza rompere formalmente i rapporti, hanno espresso preoccupazione e chiedono garanzie. Per le opinioni pubbliche arabe, l’attacco conferma la percezione di un Israele sempre più deciso ad agire fuori da ogni vincolo, anche a costo di incrinare relazioni appena costruite.
Sul piano internazionale, l’operazione di Doha riapre il dibattito sul diritto alla legittima difesa e sui limiti delle azioni extraterritoriali. Per Washington, alleata sia di Israele sia del Qatar, la crisi è un test di equilibrio: condannare senza rompere, sostenere Israele senza alienarsi i partner arabi.
Se l’obiettivo di Israele era colpire Hamas in modo risolutivo, il prezzo potrebbe rivelarsi molto alto. La “finestra di normalizzazione” con il mondo arabo, aperta con fatica negli ultimi anni, rischia di richiudersi. E con essa svanirebbe la possibilità di una pace regionale costruita sul dialogo, non sulla forza.