«Non sono stato precoce per niente. Neppure a leggere». Così ha scritto di sé Italo Calvino. Ma c’è da dubitare che sia vero, dal momento che a 17 anni, nel 1940, pubblica quattro vignette sul Bertoldo di Giovanni Guareschi e Giovanni Mosca e a 18 collabora con almeno tre recensioni cinematografiche al Giornale di Imperia, inserto del Giornale di Genova – una è andata persa, si sa solo che era dedicata a Ombre rosse.
È proprio dal disegno che bisogna partire se si vuole capire cosa significhi per lo scrittore ligure «guardare», e così trovare un significato specifico a quella frase tanto esplicita che scrive nel 1960 in una lettera al suo editor francese, François Wahl: «Quello a cui io tendo, l’unica cosa che vorrei insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo».
Firmate con lo pseudonimo di Jago, le illustrazioni dal tono umoristico e sarcastico pubblicate nella rubrica Il Cestino del Bertoldo, curata dallo stesso Guareschi e aperta ai giovani disegnatori non professionisti – tra i tanti un assiduo Oreste del Buono –, seguono un gusto nuovo all’epoca. Appaiono come vignette, con un dialogo in due o tre battute scritte sotto il disegno. Sono freddure, e una delle tre non troppo velatamente è critica verso il regime fascista – ironizza sul dettato di usare il «voi» al posto del «tu».
Lo stile del disegno di Jago – forse lo pseudonimo viene da Santiago, la città cubana dove era nato e il nome di battaglia da partigiano, visto che esiste una vignetta non pubblicata firmata con questo nome – s’inserisce nel solco dei collaboratori del settimanale milanese: il tratto di Mosca e anche qualcosa di Steinberg, il quale, dopo l’uscita del primo numero del Bertoldo nel 1936, è diventato una delle colonne del periodico, di cui disegnava spesso la copertina senza tuttavia scriverne i testi, affidati a Mosca.
In modo fulminante Gianni Celati, parlandone in una conversazione sul tema della fantasia, ha sostenuto che la forza immaginativa dello stesso scrivere di Calvino derivi proprio da quel marchio di fabbrica, dall’essere stato prima ancora che uno scrittore un disegnatore. Ricordava che, in una delle conversazioni avute con lui a Roccamare, Italo s’era definito il maggior scripturalist italiano, un termine che Celati dice di non sapere bene dove l’avesse trovato, ma che a suo avviso appariva perfetto nel definire il «lavoro di fantasia che seguiva certi spunti narrativi e usava la scrittura come una specie di disegno a mano libera».
Con una battuta autoironica Calvino spiega a Celati la sua necessità di porre dei limiti, delle contraintes, proprio per non seguire troppo pedissequamente la sua capacità di disegno, in cui il tratto sgorga da sé sul foglio come se fosse guidato da qualcosa di irresistibile, cosa che accade sovente ai disegnatori, in primis proprio a quel Saul Steinberg tanto ammirato sia dal giovane Calvino, sia poi dall’adulto. Mettere dei limiti, imporre alla facoltà immaginativa un argine, gli impediva così di diventare, come diceva, uno scrittore dilettante: «Io devo pormi degli ostacoli, altrimenti sono uno scrittore della domenica».
Guardare è un’attività che implica un allontanamento dall’oggetto guardato, e più di un critico ha parlato al riguardo di «pathos della distanza», descrivendo un atteggiamento simile a quello di uno dei suoi più celebri personaggi, Cosimo Piovasco di Rondò, protagonista del Barone rampante. Il giovane nobile vive la propria vita sugli alberi guardando da lassù quel mondo in cui abitano e agiscono tutti gli altri, dai familiari alla donna che ama, Viola. Anche un altro dei suoi personaggi, che pare somigliare allo scrittore ligure, Amerigo Ormea, protagonista del romanzo La giornata di uno scrutatore (1963), è interessato all’attività di guardare, in particolare i ritratti fotografici delle monache che si recano al seggio elettorale. La parola «scrutatore» indica il servizio che Ormea compie nel seggio elettorale all’interno del Cottolengo di Torino, ma specifica anche un modo del guardare che comporta attenzione, ricerca e indagine. E allo stesso modo anche il signor Palomar, personaggio che dà il titolo a uno dei suoi ultimi libri (1983), è un campione di osservazioni e visioni.
Nella lezione dedicata alla Visibilità Calvino elenca le proprie procedure visive secondo un ordine progressivo: osservazione diretta del mondo reale, trasfigurazione fantasmatica e onirica, processo di astrazione, condensazione e interiorizzazione dell’esperienza sensibile. Mentre le prime due – osservazione e trasfigurazione – sono abbastanza consuete in molti scrittori, l’astrazione indica invece la presenza di un elemento geometrico, aspetto che è stato più volte indicato come un limite dell’ultimo Calvino, ma che, a ben guardare, è già operante dai suoi primi racconti.
L’esperienza dei sensi è quindi sempre presente nei testi dello scrittore ligure e riveste una «importanza decisiva tanto nella visualizzazione quanto nella verbalizzazione del pensiero», fino a diventare oggetto di un libro rimasto incompiuto dedicato ai cinque sensi e uscito postumo con il titolo di Sotto il sole giaguaro.
Dunque non tutto è razionale nel procedimento immaginativo di Calvino, anzi è vero proprio il contrario: «Le soluzioni visive continuano a essere determinanti, e talora arrivano inaspettatamente a decidere situazioni che né le congetture del pensiero né le risorse del linguaggio riuscirebbero a risolvere», afferma in Visibilità. Lo scrittore sa che la fantasia imprime uno scatto all’immaginazione, ma da sola non basta, per cui l’elemento costruttivo, logico e geometrico, diventa per lui fondamentale.
Uno dei temi fondamentali del visivo calviniano è la «superficie», non solo quella dei quadri, delle fotografie o delle immagini di cui si occupa, ma quella che si presenta come forma del mondo stesso. Con un aforisma tratto da Hugo von Hofmannsthal compendia la propria idea del mondo visibile: «La profondità va nascosta. Dove? Alla superficie».