Il dilemma antico dei due Pd
5 Luglio 2023Un legame da riannodare
5 Luglio 2023«All’improvviso, uno dei miei figli mi ha urlato di scappare, che i soldati erano davanti casa. Ho aiutato mia moglie a raccogliere un po’ di cose e siamo usciti in strada». Circondato dai figli, Jihad Damaj racconta quella che a Jenin già chiamano la «marcia delle famiglie», quando lunedì sera, con le forze speciali israeliane all’interno del campo profughi che facevano irruzione nelle case, sfondando porte e abbattendo muri alla ricerca di combattenti, ha avuto solo pochi minuti per lasciare la sua abitazione.
«In strada – prosegue – ci siamo uniti a tante altre famiglie senza sapere bene dove andare. Abbiamo attraversato il campo nel buio perché mancava l’elettricità, cercando di non cadere perché le strade erano piene di fango, le ruspe (militari) le avevano distrutte». Per Jihad è un incubo che si rinnova.
«Nel 2002 fui costretto a fuggire con i miei genitori, oggi lo faccio con i miei figli», dice riferendosi all’invasione e alla distruzione di metà del campo profughi di Jenin durante l’operazione israeliana Muraglia di Difesa. «La nostra casa fu distrutta, per due anni abbiamo vissuto in un edificio pubblico – aggiunge Jihad – Inonni hanno vissuto la Nakba nel 1948, i miei genitori l’invasione del 2002, io questo nuovo attacco al campo. Ogni volta dobbiamo scappare dalle nostre case e perdiamo tutto. Cosa abbiamo fatto di male? Siamo esseri umani che vogliono vivere la loro vita come tutti nel mondo».
DI JIHAD DAMAJ e la sua famiglia lunedì notte si sono presi cura prima gli operatori della Mezzaluna rossa che illuminato con i fari delle ambulanze e guidato come hanno potuto la strada alle quasi 500 famiglie, circa 3mila uomini, donne, bambini e anziani, costretti a fuggire da casa. Poi suo cognato lo ha accolto nella sua abitazione in periferia, relativamente al sicuro, anche se si sentono le raffiche di armi automatiche e le esplosioni provenienti dal campo.
Al Corea Jenin Center invece sono state accolte decine di famiglie. Karim, un giovane, ci dice che ha aiutato a trasportare per tutta la notte coperte, generi alimentari, acqua a centinaia di persone. «Non avevano nulla con loro, i bambini avevano fame e sete. Come altri ragazzi ho cercato di dare il mio aiuto. Vedere tutte quelle persone stanche che hanno dormito a terra sulle coperte mi ha fatto male», ci racconta prima di dirigersi verso un furgone per scaricare l’acqua per gli sfollati.
Non c’è un negozio aperto a Jenin, la città è chiusa nel lutto per l’uccisione di 12 palestinesi e per lo sciopero generale proclamato in tutta la Cisgiordania. Per le autorità israeliane erano tutti «terroristi», tre di loro erano degli adolescenti.
LUNGO una delle strade che portano al campo profughi si incontrano gruppi di giovani. L’ospedale governativo è lì, davanti a noi. Ci aspettano gli operatori di Medici senza Frontiere (Msf) da due giorni impegnati con i colleghi palestinesi ad assistere decine di feriti. Gli spari però sono continui. Combattenti palestinesi provano a fermare i rastrellamenti.
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Jenin da rioccupare, la destra ci spera. Nodo Abu Mazen per la CisgiordaniaI soldati israeliani, tutti di reparti speciali addestrati per mesi all’invasione di Jenin, e i cecchini sui tetti li prendono di mira con l’aiuto dei droni che seguono ogni movimento nel campo e lanciano razzi, come hanno fatto più volte in questi giorni. Non riusciamo ad andare avanti. Giovani palestinesi ci urlano di tornare indietro.
«Questa mattina è stato l’inferno davanti e dentro il cortile dell’ospedale governativo, sparano a tutto quello si muove», ci spiega un ragazzo. Gli operatori di Msf confermano: «Il pronto soccorso stamattina era pieno di fumo, così come il resto dell’ospedale. Le persone che hanno bisogno di cure non potevano essere trattate nel pronto soccorso e siamo costretti a curare i feriti sul pavimento dell’atrio dell’ospedale. Le nostre équipe hanno curato 125 pazienti dall’inizio del raid», dice Jovana Arsenijevic, coordinatrice delle operazioni di Msf a Jenin.
Un’altra organizzazione internazionale, Reporter senza Frontiere, denunciato attacchi ai giornalisti. In un video si vede un blindato israeliano colpire ripetutamente la telecamera di un giornalista posizionata su un cavalletto.
E IL RICORDO va subito a Shireen Abu Akleh, la corrispondente di Al Jazeera uccisa un anno fa a Jenin da un colpo sparato da un soldato. «Non intenzionalmente», hanno detto le autorità militari chiudendo la loro indagine. Entrare a Jenin per i giornalisti non è facile. Ai posti di blocco i soldati sembrano rispondere a ordini diversi. Alcuni, facendo la voce grossa, vietano il passaggio ai reporter, altri li lasciano andare dopo qualche domanda. Tutti impongono lunghi giri intorno al distretto di Jenin per raggiungere la città e il suo campo profughi.
QUANDO LE FORZE armate usciranno da Jenin non è chiaro, anche se ieri sera circolavano voci su un primo ridispiegamento nel corso della notte. L’invasione – che ieri è tornata a chiamarsi «Casa e giardino» – continuerà finché i suoi obiettivi non saranno raggiunti, proclama il premier israeliano Benjamin Netanyahu: «In questo momento le nostre forze stanno agendo con tutta determinazione a Jenin. Eliminano e arrestano terroristi, distruggono i loro quartier generali e magazzini. L’operazione ‘Casa e giardino’ continuerà per il tempo necessario fino al raggiungimento degli obiettivi», ha detto ieri all’ambasciata statunitense in Israele.
Per i comandi militari invece l’operazione potrebbe terminare «più rapidamente di quanto inizialmente previsto, probabilmente nel giro di qualche giorno». Un portavoce dell’esercito, Daniel Hagari, sostiene che aviazione e forze di terra hanno distrutto 20 obiettivi, incluso un deposito di armi nascosto sotto una moschea e che sono stati arrestati «120 sospetti terroristi». Si dice che Nablus, l’altra roccaforte della militanza armata palestinese, sarà l’obiettivo della prossima, devastante, operazione militare israeliana.
Nel frattempo, nessun provvedimento serio è stato presto nei confronti dei coloni israeliani in Cisgiordania che a centinaia nei giorni scorsi hanno messo a ferro e fuoco diversi villaggi palestinesi, dove, talvolta nel cuore della notte, armi in pugno, hanno incendiato decine di auto e diverse abitazioni gettando nel panico migliaia di civili palestinesi – uno è stato ucciso – per vendicare l’uccisione di quattro israeliani il mese scorso. Quello, per i ministri Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, non è «terrorismo», solo i palestinesi sono «terroristi».
SCUOTE LA TESTA Mustafa Barghouti, medico, parlamentare, ex candidato della sinistra alle presidenziali palestinesi del 2005 che incontriamo in uno dei centri dove sono ospitati gli sfollati: «Tanti civili palestinesi sono in pericolo in queste ore, l’esercito israeliano continua ad attaccare il campo profughi, densamente popolato, dove vivono ventimila persone, non terroristi. E lo fa usando droni, elicotteri e aerei, con le armi più sofisticate».
Eppure, aggiunge, «sento dai leader stranieri, occidentali, che Israele si starebbe difendendo. Ma siamo noi che meritiamo protezione, siamo un popolo occupato al quale Israele da decenni nega la libertà».