La raccolta di scritti di John Cage uscita negli Stati Uniti nel 1979 – un po’ tardi rispetto al tempo della scrittura che va dal 1963 al 1967 – e ora da noi con il titolo Un anno, a partire da lunedì Dopo Silenzio nella traduzione (da veri virtuosi del loro lavoro) di Giancarlo Carlotti e Ermanno «Gomma» Guarneri per Shake edizioni (pp. 180, euro 25,00) si presenta in vari passaggi come un testo da guardare oltre che da leggere. Quei passaggi sono stati disposti dall’autore con cambi «illogici» di caratteri, disposizioni irregolari nella pagina, tutti artifici dettati dal «caso calcolato» (ma attenzione: Cage non va mai definito aleatorio in musica dato che si rivela un organizzatore eretico dei suoni).

Questo libro composito (non composto) non è un libro dalla prima pagina all’ultima: in parecchie pagine è una partitura grafica, come quelle che vengono scritte da compositori di punta. Si potrebbe dire radicali ma sta passando di moda. Nelle partiture grafiche (celebre Treatise di Cornelius Cardew) insieme alle note o al posto delle note ci sono segni visivi, e funziona bene scorrerli in un campo visivo, che si può immaginare persino in movimento.

Partitura grafica? Qui appare il primo problema. Una delle frasi che si incrociano in questo zibaldone di pagine di diario e pagine di conferenze e pagine d’occasione, note, noterelle, ricordi, veri saggi, una delle prime frasi ad effetto è: «Un compositore scrive in questo momento in maniera indeterminata. Gli esecutori non sono più suoi servi, ma uomini liberi. Un compositore scrive le parti, ma poiché non definisce le relazioni tra di esse, non scrive una partitura». Quindi partitura non è parola gradita a Cage. Se ne deduce che non sia adatta a designare questa raccolta di scritti. Che sono ideati «in maniera indeterminata».

Gli interpreti, cioè i lettori, sono indipendenti, non si lasciano imporre modi di lettura dall’autore ma eseguono le loro parti, magari scegliendole. L’elogio dell’indeterminazione in musica è in tutto il libro. È quasi un presupposto. La cultura dell’indeterminazione in musica viene trattata come se fosse egemone. E chissà che non lo fosse in quei giorni e per molti episodi non lo sia ancora oggi. Viene in mente una domanda: il Cage musicista mette in discussione nelle sue opere di vari periodi il ruolo dell’autore, come fa per esempio Franco Evangelisti col Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza proprio negli anni della scrittura di Un anno? Sì quando accusa il compositore di vecchio tipo di «dire agli altri cosa devono fare». No quando si scopre che è ben ravvisabile il suo ruolo – prezioso, da amare, mirabile – di organizzatore dei suoni, che diventano alla fine più suoi che se fossero lasciati liberi di essere quel che sono, secondo la nota formula di Cage. Che, certo, realizza così una nuova, aperta, tendenzialmente anarchica, forma di organizzazione. In 4’33’’, il suo pezzo preferito dove verifica che il silenzio non esiste, va vicino al proprio ideale, eppure la prescrizione cronometrica richiama l’intervento dell’autore.

Divagazioni a parte, qui abbiamo il Cage più politico che si sia mai sentito, anzi letto. Politico rivoluzionario lo è sempre stato, intendiamoci, direttamente con le sue opere che motivano il mondo all’insorgenza anche quando sono amabili e un po’ sornione. Ma qui, per rispondere alla domanda se il suo pensiero sia cambiato nel tempo, scrive cose come questa: «Ci stiamo liberando della proprietà, sostituendola con l’uso», 1966, e «oggi la nostra poesia è capire che non possediamo nulla», 1952. «Certo, le mie opinioni scaturiscono dal campo musicale. Il quale, per così dire, è un gioco da bambini… Oggi il nostro vero lavoro, se amiamo l’umanità e il mondo in cui viviamo, è la rivoluzione». Naturalmente Cage non rinuncia al suo spirito dada quando intitola così un trittico di riflessioni: Come migliorare il mondo (puoi solo peggiorare le cose).

La sua idea dell’indipendenza dei musicisti e della liberazione dei suoni si allaccia ai pensieri sull’impegno (Conferenza sull’impegno è un altro capitolo). Quanto a migliorare il mondo, Cage confida, in quel momento, meno nella musica («i nostri concerti celebrano il fatto che i concerti non sono più necessari») e più nelle invenzioni e nelle teorie globaliste di Buckminster Fuller, invenzioni e teorie che sostanzialmente mirano a una sorta di giustizia distributiva («dare più con meno a tutti») basata sulla critica corrosiva della proprietà.

C’è corrispondenza tra i manifesti politici di Cage e le sue opere? Certo. Va sempre ricercata nel suo agire con i suoni nella direzione dell’indeterminazione e della indipendenza di chi agisce con i suoni. Anche parlando del Cage politico si torna sempre lì. Vediamo questa corrispondenza. Il Concerto per pianoforte e orchestra (1958) con la gran quantità di spazi vuoti e con l’intercambiabilità delle pagine è un buon esempio. Ancor più l’Imaginary Landscape 1 (1939) per giradischi ed esecutori a piacere. Sono tentativi di avvicinamento alla libertà dei suoni. Tentativi che si traducono in realtà in splendide, sovversive, opere musicali. Ma più di tutte queste ricerche e del loro diventare quel qualcosa di assai impegnativo che si chiama opera sono importanti, decisivi, i Number Pieces della estrema maturità scritti tra il 1987 e il 1992. Poche note o segni. Un clima di meditazione. Tracce e silenzi in cui gli interpreti e gli ascoltatori possono immergersi con un grado altissimo di libertà.