Il “Messia” si è perso tra le “Botteghe color cannella” dei Carpazi
28 Luglio 2022Patti Smith, Roma, 27 luglio 2022
28 Luglio 2022
Col passare dei giorni, anziché placarsi, l’emozione è cresciuta. La riapparizione di Joni Mitchell sul palco del fatale festival di Newport (sì, lo stesso della scomunica di Bob Dylan per la sua conversione all’elettrico e l’abiura al folk, un luogo deputato a definire lo stato dell’unione musicale americana), in un evento accuratamente orchestrato dalla collega Brandi Carlile, stimata cantautrice, attivista dei diritti omosessuali e da anni curatrice dell’archivio di Joni, collaboratrice ancillare nonché organizzatrice delle “Joni Jam” che da tempo si mormora avvengano nel salotto della villa losangelina dell’artista, radunando l’aristocrazia della West Coast music che fu, ha toccato corde prevedibili nel pubblico, ma ha anche provocato effetti inaspettati, e riflessioni che hanno condotto lontano. La parola che viene in mente è “soggezione”. Ma andiamo con ordine. La Mitchell da oltre vent’anni ha interrotto la sua magnifica carriera, prima azzerando le apparizioni live poi, in polemica con l’industria discografica, rarefacendo le sue registrazioni, che s’interrompono nel 2007 con l’ultimo album di inediti, “Shine”. Il suo disprezzo è la matrice più visibile di una personalità rimasta coerente con gli ideali giovanili, quando fu protagonista assoluta dell’onda della musica ribelle americana, con forme e contenuti che soggiogarono l’America e diverse generazioni di fans in tutto il mondo. Del resto la caratterialità di Joni non è mai stata semplice e le cose rischiano di precipitare nel 2015, quando un aneurisma cerebrale sta per ucciderla, salvata da un virtuosismo chirurgico e avviata a una lunga e dolorosa riabilitazione. A quel punto il mondo della musica pensava d’aver chiuso i conti con lei, stabilizzando il suo ruolo sacerdotale, storicizzando la qualità della sua produzione e venerando i suoi capolavori, collocati tra i simboli di un’epoca i cui tratti si andavano sbiadendo. Ed è qui che avviene l’inatteso: Joni, poco alla volta, torna a riaffiorare. Lo scorso dicembre accetta un’onorificenza al Kennedy Center pronunciando un discorso, in aprile fa la sua apparizione ai Grammys, poi scende in campo a fianco del vecchio compare Neil Young nella battaglia contro le ipocrisie di Spotify riguardo all’informazione sulla pandemia. Joni è viva, ci si è detti, conciata male, ma tra noi, anche se il baratro che dividevano quelle sue nuove immagini pubbliche dalle smaglianti irruzioni della sua voce, della sua arte e del suo corpo nella musica degli anni Sessanta minacciavano di rendere ancor più doloroso il riconoscimento.
Ma quanto è successo domenica a Newport modifica il quadro. Sotto la dizione “Brandi Carlile & Friends” c’era infatti una scaletta accuratamente messa a punto, c’erano delle prove che sono state fatte, c’era un autorevole cornice di musicisti (Marcus Mumford e Wynonna Judd tra gli altri) pronti ad accompagnare il ritorno e renderlo ancor più solenne, c’era la servizievole emozione della Carlile a imbarazzare nella sua perdita di controllo delle emozioni, c’era quel trono Luigi XIV sul quale Joni – 78 anni, occhiali da sole, basco in testa, parafernalia appesi ogni dove, la solita aria severa – si è cautamente adagiata, per dare il via a un qualcosa che chissà quale significato avrà occupato nella sua visione. Poi è partito lo show. Joni ha suonato classici da “Big Yellow Taxi” a “Both Sides Now” e standard come “Summertime”, ha riproposto la “Circle Game” che cantò sullo stesso palco 53 anni prima, quando era una qualsiasi folksinger canadese che la grande Judy Collins invitò a partecipare al suo set, contribuendo alla nascita di una stella. Joni ha perfino suonato la chitarra in un lungo, lirico assolo e noi sapevamo che avesse perso quella capacità dopo l’accidente; ha anche parlato, raccontato storie come faceva nei suoi leggendari concerti, ha confidato l’intenzione di visitare l’America su una Mercedes scalcagnata, se per caso vi dovesse capitare d’incrociarla. Tutto però è divenuto irreale. Al di là dello stupore per ciò a cui si stava assistendo, al di là della sensazione di privilegio, si è risvegliato un sentimento più sottile e subdolo. Allora è il tempo che ci prende in giro, è la favola del ritorno degli dei, degli ordini che si sovvertono! Se avete creduto in queste cose musicali, in questa declinazione dell’arte come rappresentazione estetica e filosofica, il ritorno di Joni è un atto con cui ci vorrà tempo per venire a patti, collocarlo e capirlo. Perché, appunto, c’è la soggezione, perfino accentuata dal suo modo di fare, dalla sua consapevolezza d’essere stata e di essere. E’ la bellezza che torna, sfidando atavici nemici come la vecchiaia e la malattia e – più che sconfiggendoli – silenziandoli, dimostrando come possa bastare l’alterigia, la superiorità dello stile, anche dopo la sua corrosione. E si resta storditi da questa apparizione, come se un evento sovrannaturale avesse interrotto il flusso della normalità. La reazione, dopo aver consumato il profluvio di video che su YouTube permette di condividere l’evento è mettere le mani su un greatest hits di Joni e lasciare scorrere gli originali, gli stessi domenica eroicamente ripercorsi dall’artista. E un’inattesa sensazione di calma subentra a placarci, a restituire il naturale ordine delle cose, la Storia per come ce la siamo costruita. Certo, c’è del senso di colpa in questa scappatoia che potrebbe essere equivocato per un rifiuto. Ma è inutile fingere d’essere pronti a tutto, disposti a qualsiasi emozione. Queste cose sono state troppo importanti, per chi le abbia vissute in certi momenti della propria vita. Questa recrudescenza, il secondo avvento, nella sua commovente insolenza, ci lascia interdetti. Ovviamente di nuovo ammaliati da Joni – come sempre. Ma disorientati sulla direzione delle cose in cui credere.