Noia e solitudine, la colpa non è soltanto loro
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17 Ottobre 2023Judith Butler: «Solo una democrazia radicale può porre fine alla violenza in Medio Oriente»
«Non si può dubitare del mio dolore. Ma se dovessi rimanere nella mia indignazione di ebrea senza vedere la devastazione che Gaza ha subito fallirei nella comprensione di un quadro più completo». Judith Butler ha un tono pacato e la voce bassa, la potenza del messaggio è nelle parole e nei gesti. Siamo all’università di Bari dove sta per ricevere, prima in Italia, il dottorato honoris causa in Gender Studies. Nella cerimonia la filosofa statunitense, che tra i tanti libri ha pubblicato La forza della non violenza. Un vincolo etico-politico, parlerà di «immaginazione oltre la paura e la distruzione». Una lectio magistralis che non fa sconti a nessuno: dal governo italiano al regime russo, fino alla chiesa cattolica, c’è un fronte globale che ha trasformato il «gender» da strumento di analisi critica e liberazione in un «fantasma» attorno al quale catalizzare le principali paure del mondo contemporaneo. Con noi discute della situazione in Medio Oriente.
Quando un evento crea uno choc tale da rendere evidente che ci sarà un prima e un dopo – l’11 settembre 2001, l’invasione russa dell’Ucraina o l’attacco di Hamas – pare che ognuno sia chiamato a schierarsi da una parte o dall’altra. La ricostruzione di storia e contesto è giudicata un’inutilità o perfino un tradimento. Questa sorta di presentismo è un dovere o un pericolo?
Dobbiamo condannare pubblicamente la violenza contro gli israeliani avvenuta il 7 ottobre e perpetrata da Hamas. Ma dobbiamo anche chiederci se è tutto ciò che va condannato. Siamo sconvolti che bambini, anziani e civili indifesi siano stati uccisi. Ma siamo stati sconvolti anche nei decenni in cui Israele ha bombardato case, scuole e ospedali a Gaza? Sappiamo che Israele dice: sono scudi umani, usati per proteggere installazioni militari. Ma abbiamo i numeri dei bambini morti a Gaza. Sono migliaia. Abbiamo visto persone uccise e case distrutte dai bombardamenti. Dobbiamo chiederci perché la nostra indignazione è riservata ai civili israeliani. Io sono ebrea e quando gli ebrei vengono ammazzati il mio cuore si spezza. Quando sento che questo è stato il più grave attacco a qualsiasi gruppo di ebrei dalla seconda guerra mondiale sono sconvolta. Non si può dubitare del mio dolore. Ma se dovessi rimanere dentro la mia indignazione di ebrea senza vedere la devastazione che Gaza ha subito restringerei la mia visione e fallirei nella comprensione del quadro completo. Se non vogliamo più assistere a una simile violenza dobbiamo chiederci cosa c’è bisogno di fare per eliminarla per sempre. La risposta non è lo sterminio degli abitanti di Gaza o la loro espulsione in Egitto, come pensano alcuni leader di Israele. La risposta è liberare i palestinesi dall’occupazione e trovare una forma di coabitazione politica che permetta alle persone, a tutte le persone, di vivere con uguaglianza, libertà e giustizia. Solo una soluzione di democrazia radicale può mettere fine alla violenza.
Tracciarne la storia è un esercizio teorico o serve a trovare quella soluzione?
Dobbiamo imparare la storia di Gaza. Quando è stata costruita? Chi è stato messo lì contro la sua volontà? Dove viveva prima? Cosa sappiamo della loro espulsione e dell’occupazione? E poi: come è stata formata Hamas? Quando? Sappiamo quanti palestinesi la sostengono? Conosciamo le differenze tra l’ala politica e quella militare di Hamas? Questa non è teoria, è storia, è sociologia. È politica. Dobbiamo conoscere tutta la vicenda, da entrambi i lati, inclusa la colonizzazione degli israeliani su quelle terre e l’espropriazione dei palestinesi mentre gli ebrei cercavano un rifugio. La conoscenza di questa storia è necessaria per avere una visione sufficientemente ampia da portare a una pace definitiva.
Cosa significa l’attacco di Hamas, con quel tipo di violenza e di progetto politico, per i movimenti della sinistra che nel mondo sostengono la causa palestinese?
La sinistra deve condannare le tattiche di Hamas. Non le difenderò mai. Ma mi interessa capire come sono arrivati lì. Condanna e comprensione storica non sono in contraddizione. Bisogna capire non per scagionarli ma per trovare un modo di superarli. In generale i movimenti di sinistra che sostengono i palestinesi dovrebbero insistere sulla lotta non violenta. Un problema è che anche chi tra noi che appoggia il movimento per «boicottaggio, disinvestimento e sanzioni» (Bds, ndr) è chiamato terrorista.
La violenza degli oppressi è uguale a quella degli oppressori?
No, ma entrambe sono sbagliate. È chiaro che è diverso assoggettare i popoli o ribellarsi. Per esempio il New York Times definisce Hamas un’organizzazione terroristica. Loro invece si vedono coinvolti nella lotta armata contro un’occupazione. Lo Stato di Israele si sente impegnato in una legittima autodifesa. Possiamo chiederci se quell’autodifesa a volte opera come un veicolo per il furto della terra o l’imprigionamento di civili palestinesi che non costituiscono una minaccia per nessuno? Accettiamo che Hamas è coinvolta in una lotta armata come altre, come in Sud Africa per esempio? Accettiamo che Israele opera solo per autodifesa o è anche un potere militare aggressivo che cerca di mantenere i palestinesi in un assoggettamento permanente? Dobbiamo interrogarci su questi modi di descrivere la violenza. Sono domande importanti. Spero sia possibile discuterne pubblicamente per capire meglio la situazione. Ho paura che reagiamo troppo velocemente o accettiamo il linguaggio dei media senza una comprensione critica sull’origine di quel linguaggio.
Nella rappresentazione che quel linguaggio produce difendere Israele significa difendere la democrazia occidentale contro i barbari. È d’accordo?
No. Non ci sono dubbi che la violenza di Hamas sia orribile, ma le richieste dei palestinesi di libertà e giustizia sono un’altra cosa. È estremamente importante e legittimo il desiderio di vivere in una democrazia, con diritti politici. Non credo sia d’aiuto chiamare quelle persone «animali» o «barbari». Serve solo a darne una caricatura essenzialista e razzista. E non credo che Israele rappresenti la migliore versione di democrazia. È uno Stato basato su un’occupazione violenta. Su espulsioni violente. Ha spogliato persone dei loro diritti per produrre la sua democrazia. Cosa significa democrazia basata sulla negazione dei diritti? Che è una democrazia per alcuni e non per tutti. Che ai non cittadini rimane una disuguaglianza radicale. Non è la versione di democrazia che voglio difendere. Ho grandi speranze nella democrazia e spero di vederla nella regione. Ma non credo sia già successo.
Quando scoppia la guerra tutto il resto passa in secondo piano. Non è il tempo del femminismo o il femminismo può giocare un ruolo anche in un simile momento?
Il movimento femminista contro guerra, violenza statale e lotta armata è estremamente importante. Lo abbiamo visto nei Balcani, in Turchia, Sudafrica o America Latina, dove ci sono movimenti enormi per la democrazia e contro la violenza. Ni Una Menos o le lotte indigene non sono coinvolte nella lotta armata, ma in mobilitazioni di massa che si battono per estendere la democrazia in tutta la popolazione. Nella ex Yugoslavia le «donne in nero» erano contro la violenza, tutta la violenza, serba o croata. Abbiamo molto da imparare dai movimenti femministi perché hanno riflettuto per decenni sulla violenza a ogni livello, venga essa da Stato, polizia o famiglia.
La non violenza è possibile durante una guerra?
No, ma non è una ragione per rinunciare ad affermarla. A volte affermiamo l’impossibile. Qualcuna deve farlo. Altrimenti diventiamo tutti guerrieri, accettiamo la realpolitik. È possibile che le persone ti prendano per pazza. Pensino che sei naif o idealista. Lasciamole pensare quello che vogliono.
(All’intervista ha collaborato Roberta Martino)