Henri Cartier-Bresson gli riconosceva di avere anticipato tutto. Ora Camera, a Torino, ripercorre la carriera del maestro ungherese dell’immaginediMichele Smargiassi
Troppo umano, troppo eloquente, troppo misterioso, troppo precoce. Sulla lunghissima vita di André Kertész gravò la maledizione dei profeti. Se ci chiediamo chi è stato l’occhio del Novecento ci vengono alle labbra altri nomi, soprattutto quello di Henri Cartier-Bresson, che invece signorilmente gli cedette il primato: «Qualunque cosa abbiamo fatto, Kertész l’ha fatta prima». Ed è vero, lampante, ovvio, basta aggirarsi nelle sale di Camera, il centro torinese per la fotografia che gli dedica una retrospettiva affascinante (fino al 4 febbraio). Tutti i suoi grandi epigoni sembrano avergli rubato qualcosa. Cartier-Bresson l’istante decisivo dell’uomo con la tuba che porta un quadro sottobraccio mentre in alto sul ponte di Meudon sbuffa una locomotiva. Robert Doisneau, i micro-episodi di vita nelle strade di Parigi. Man Ray, gli oggetti orfani (forchette, pipe, occhiali) tristi e abbandonati sul tavolo. E perfino Helmut Newton, proprio lui, il grande voyeur, le sue sorprendenti scandalose immagini sadomaso per la pubblicità di biancheria intima. A Brassaï, poi, insegnò personalmente come fotografare di notte.
Serpeggiava forse perfino un po’ d’invidia nel dehors del Café du Dome, a Parigi, dove si fermava spesso quel giovane, ambizioso ungherese che nel 1933 fece esclamare al poeta surrealista Paul Dermée: « Nel nostro ospizio di ciechi, Kertész è il fratello che vede per noi». Un fotografo per fotografi, mai ringraziato abbastanza. Del resto, Kertész in ungherese significa “giardiniere”: un coltivatore di talenti. A Parigi era arrivato da Budapest, dove era nato (vero nome Andor) in una famiglia di ebrei ortodossi benestanti, e dove la scoperta di un pacco di vecchie riviste illustrate nella soffitta di famiglia lo folgorò per sempre. Fuggì il regime antisemita di Horthy e un destino di agente di borsa, portando nella valigia una fotocamera Ica a lastre donatagli dalla famiglia per il diploma, come d’abitudine nella sua terra. A Parigi comunque conoscevatutti, frequentava Mondrian, Léger, Chagall, Calder, Man Ray, Ejzenštejn, Brancusi: non si affiliò a nessuno. Evitò come slalomista le bandierine delle opposte avanguardie: corteggiandole senza toccarle. «Sono un fotografo ordinario ed egoista, faccio quello che sento di fare». Anche in guerra aveva fotografato: ferito al braccio sinistro, assegnato a un lavoro di staffetta, girò per i fronti del grande macello prendendo fotografie leggerissime. Una, quel nuotatore sotto il pelo dell’acqua che gli deformava le membra, preso al volo a Esztergom nel 1917, gli aprì la mente: dunque si può fotografare la realtà per come non è. Se ne ricorderà nell’esilio americano, quando i suoi nudi deformati dagli specchi da lunapark faranno sensazione.
Rifiutava con sdegno l’etichetta di surrealista, rivendicava il suo realismo, e in questo modo fondò la splendida ambiguità della migliore fotografia del Novecento: quella virtù di usare il linguaggio delle cose per parlare di cose che stanno oltre le cose. Non esiste uno “stile Kertész”, la diversità dei suoi linguaggi è sorprendente, ma fin dalle sue prime icone, per esempio quel violinista cieco guidato da un bambino nelle strade fangose di Abony, o l’ombra dell’omino col cappello in un vicolo di Budapest, quello di Kertész è un mondo dove gli oggetti si offrono come enigmi, geroglifici da decifrare. Ma la realtà tradisce. Nel 1936, Kertész decide difare il salto, va in America attirato dalla promessa di una carriera con una grande agenzia fotografica, la Keystone, per accorgersi che quelli vogliono solo immagini documentarie tecnicamente perfette, mentre le sue «parlano troppo». Bruciante delusione: «Se avessi avuto i soldi sarei tornato subito in Francia, poi quando i soldi li ho avuti è scoppiata la seconda guerra mondiale e di tornare in Europa neanche a parlarne». Prigioniero in un Paese che finisce per detestare, e che non lo apprezza. «Tu sei troppo umano, Kertész, dovresti essere più brutale», lo consiglia un editore. Ma poi, quando mostra a Beaumont Newhall quei suoi nudi deformati (che anni dopo Henry Moore gli confesserà di aver molto, ma molto guardato), il primo guru della fotografia al MoMA perplesso gli chiede di ritoccare i peli pubici, perché «se si vedono è pornografia, se non si vedono è arte». Campa con moda e pubblicità, per Condé Nast e House & Gardens, un «lavoro di schiavo» a cui negherà sempre la paternità autoriale. Colmo della beffa, come «alieno nemico» gli viene proibito di fare fotografie per le strade. Reagisce fotografando, a modo suo, la noiosa Washington Square dalla finestra di casa.
Come si addice ai profeti, solo in età avanzata arriva la gloria. Lo scopre nel 1963 Romeo Martinez, e lo espone a Venezia. L’anno dopo è al MoMA. È la fama tardiva, giunta quando quei suoi «occhi da bambino » (come quelli del piccolo Ernest, scolaretto fotografato a Parigi nel 1931, che fece esclamare a Barthes: «È possibile che viva ancora oggi: ma dove? Come? Che romanzo!») hanno ormai settant’anni. I collezionisti gli portano per l’autentica vecchie stampe che lui aveva svenduto, e che scopre costare migliaia di dollari. Il “fratello veggente”, diventato misantropo e rancoroso, non perdonerà l’America, e alla sua morte, nel 1985, donerà i suoi centomila negativi “al popolo francese”, che non lo aveva mai accusato del delitto di espressività.