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A lungo Walter Benjamin si è interrogato sul concetto di «immagine dialettica». Si tratta di una costellazione discontinua e «a salti», nella quale, fulmineamente, si incrociano sopravvivenze di periodi precedenti e prefigurazioni possibili: «ciò che è stato» viene ravvivato dall’«ora».
Potremmo muovere da questa riflessione ormai classica per leggere Rags (in inglese: stracci), il ciclo dell’artista inglese Darren Almond, prodotto in collaborazione con la galleria Alfonso Artiaco, esposto nel Museo della Cappella Sansevero di Napoli (fino al 17 marzo). Una serie che invita a compiere un viaggio nella storia dell’arte. Nell’accostarsi, i diversi lavori pongono in risonanza stili di epoche differenti, dischiudendo inattese collisioni di senso e corrispondenze di visioni tra classicismo settecentesco, neoumanesimo novecentesco e contemporaneità.
Da un lato, il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino. Un capolavoro che riesce a combinare tragedia e metafisica, dolore e bellezza. Sul corpo disteso e abbandonato, ma spento e «straziato», del Cristo morto, è gettato un trasparente lenzuolo di marmo dalle pieghe morbide che, senza nascondere, vela; senza coprire la sofferenza, la fa sentire; senza occultare lo spasimo, lo fa affiorare con dolcezza. Un’invisibile mano, con religiosa e delicata pietà, vorrebbe rimuovere quel leggero sudario, sottile come una garza. Dall’altro lato, Lucian Freud, i cui ritratti dal vero sono stati sempre eseguiti nel suo atelier. Sono personaggi vagamente michelangioleschi dipinti da un maestro che, oscillando tra memorie rinascimentali e suggestioni espressioniste, scolpisce corruzioni e deformazioni. Con il pennello modella anatomie martoriate, come carte geografiche di celluliti e di vene varicose. Con colori pastosi e terrosi racconta la materia di cui siamo fatti: anche il sangue diventa solido. «Voglio che la pittura faccia quello che fa la carne», amava ripetere Freud, ultimo anello di una storia secolare, espressione di una concezione anti-moderna del fare pittura e del vedere il corpo.
Infine, Almond (al quale sono state dedicate mostre personali, tra le altre istituzioni, dalla Kunsthalle di Zurigo e dalla Tate Britain di Londra). Dapprima, egli è andato a spiare nel famoso studio londinese di Freud, spazio privato che assorbe umori; arena del farsi dell’opera; stanza del mistero; struttura plastica che gestualizza il corpo e inventa un’identità morale; dispositivo che porta l’anima fuori di sé, estende e moltiplica l’io; interlocutore negativo, dotato di una spiccata autonomia linguistica; contrappunto pensante, che sembra addirittura collaborare con il pittore, fino a diventarne protesi, appendice, prolungamento. Entrato in quel luogo, Almond ha indugiato su alcune vestigia povere: impronte minime, fantasmi materici. Ecco quel che resta del fuoco, quando tutto è finito. Gli stracci sporchi di colore, nei quali si sono depositati i residui della pratica quotidiana: tracce di tentativi forse realizzati o forse interrotti. Dopo essere state stratificate, ormai secche, le striature di colore — a volte acceso, altre volte attenuato da mescolanze cromatiche — hanno acquistato un’imprevista rigidità. Quasi per magia.
«Un giorno, mentre nella mia stanza guardavo un asciugamano su una sedia, ho avuto l’impressione non soltanto che ogni oggetto fosse solo, ma che avesse un peso», aveva confessato Alberto Giacometti a Jean Genet. Sono parole che potrebbe ripetere anche Almond, il quale coglie la valenza poetica di quelle fragili e dimenticate reliquie. Che, nel decretare il trionfo dell’informe, si fanno immagine dell’inintenzionale, dell’indeterminato, dell’aleatorio, del casuale, del non-finito.
Da tale fascinazione è nato la scelta di fotografare da vicino i rags, gli stracci, per farne emergere la dimensione segretamente plastica. Inoltre, da sempre portato a lavorare con vari media (fotografia, scultura, pittura, video), Almond ha deciso di riattivare il processo di Freud, rimasto sospeso e bloccato, ricorrendo a una serie di interventi pittorici d’impronta espressionista. Un modo per mimare l’azione del tempo, grande scultore.
L’effetto è straniante. Zoomati in riprese fotografiche di grande formato, gli strumenti utilizzati da Freud acquistano così originali assonanze iconografiche. Drammaturgie informali. Paesaggi materici, che ricordano da vicino la sontuosa bellezza delle pieghe amate dagli artisti barocchi. E, insieme, evocano le increspature delicate e sottili, leggere e impalpabili, del Cristo velato.
Descrivendo la filosofia sottesa a queste collisioni tra momenti storici diversi e lontani, Almond ha detto: «Mi sono ritrovato nello studio di Lucian a scrutare le pieghe e le forme degli stracci accumulati con cui aveva ripulito i pennelli per l’ultima volta. Ho fotografato e ingrandito quei dettagli, producendo ampi paesaggi mentali. Ma non era sufficiente. Sentivo che doveva esserci un risveglio di coscienza, nello stesso modo in cui il velo della scultura di Sanmartino attiva narrazioni interiori. Ho applicato anch’io una sorta di sudario, stendendo un velo di pittura e colore sulle tele di stracci».
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