Quarant’anni fa, con Gianluca Bocchi, organizzavamo i primi incontri internazionali e interdisciplinari sotto la sigla “La sfida della complessità”. Ed è da quegli incontri che nacque l’omonimo volume che oggi viene ripubblicato in una nuova edizione.
Attraverso le rivoluzioni scientifiche del Novecento, l’alea, l’imprevedibilità, l’incertezza, il disordine avevano ormai incrinato il mondo ordinato, meccanico e regolare della scienza classica, e avevano aperto il sipario sulla complessità. Le scienze ci sollecitavano a un nuovo sguardo sulla natura, e a riflettere sul nostro modo di conoscerla.
Fu l’abbrivio di un’avventura che ha portato a intrecciare itinerari che venivano da storie lontane fra di loro, separate da steccati disciplinari. Fra gli altri, ad aprire i nostri dialoghi furono innanzitutto Edgar Morin, Ilya Prigogine, Isabelle Stengers, Francisco Varela, Lynn Margulis, Heinz von Foerster, Jerome Bruner, Stephen J. Gould, Jim Lovelock, Paul Feyerabend, Alberto Munari, Donata Fabbri, Douglas Hofstadter, Ervin Laszlo, John Barrow, Jerome Bruner, Immanuel Wallerstein, Karl Pribram, Paul Watzlawick… Cominciammo a camminare insieme nei luoghi di frontiera dove più cruciali erano le biforcazioni che sollecitavano nuovi paradigmi per pensare la natura, l’umanità, la conoscenza stessa. Sergio Manghi, nella nuova e ampia introduzione alla nuova edizione del volume La sfida della complessità, ricostruisce l’articolata storia di questi dialoghi.
Mi piace qui ricordare che in quegli stessi dialoghi e poi in un mirabile testo dedicato alla Molteplicità Italo Calvino affermava che compito del romanzo contemporaneo era di «rappresentare il mondo come un garbuglio, senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinarlo». Sensibile alla necessità di superare la separazione fra le «due culture», anche il letterato Calvino poneva al cuore della sua poetica quella che si presentava ormai come l’idea chiave delle scienze della natura contemporanee, che ha trasformato radicalmente la nostra visione dell’universo e della vita, fino all’opera del Nobel Giorgio Parisi: «complessità». E tuttavia, affidando quel compito al romanzo contemporaneo, anche Calvino intuiva bene, come noi filosofi e scienziati, che la complessità stava diventando anche l’inedita caratteristica del nostro tempo, in cui tutto è connesso.
“Complessità” deriva dal verbo latino plectere (intrecciare) più cum (insieme): intrecciare insieme, più volte, nel tempo, a formare una unità, le cui proprietà emergono proprio da questo intreccio, e non dalla somma delle proprietà delle parti prese separatamente le une dalle altre. La complessità contiene in sé il riferimento sia alla molteplicità sia alla unità. Tutto è interdipendente, in una circolarità complessa in cui tutto è contemporaneamente effetto e causa.
La “sfida della complessità” ha suscitato dialoghi fecondi fra molteplici saperi volti a leggere il radicale e rapido cambiamento d’epoca di questi nostri anni; e poi, declinandosi in vari modi, ha suscitato nuove prospettive anche al di fuori del campo strettamente filosofico e scientifico, in molte professioni e pratiche sociali: dalla psicologia clinica alla formazione degli adulti e alla pedagogia, dalla medicina all’organizzazione aziendale, dall’architettura all’urbanistica, dall’economia alla politica…
La sfida della complessità è emersa dal passaggio d’epoca che sconvolge il nostro tempo. È la sfida a comprendere che, in un mondo in cui tutto è connesso, i problemi non possono essere analizzati come se si manifestassero isolatamente e come se reclamassero soluzioni semplici. È proprio ciò a cui oggi ci sollecitano le policrisi globali (pandemia, riscaldamento globale, guerre…), che ci rivelano come in un mondo complesso eventi anche piccoli e locali possono comportare conseguenze che si amplificano su scala globale, e in cui perciò tutto può cambiare in modi improvvisi, imprevedibili.
La complessità dell’attuale condizione umana ci sfida a prendere consapevolezza di una più profonda crisi che è alla radice di tutte le crisi. È una crisi cognitiva, che concerne proprio la difficoltà di pensare la complessità, di pensare insieme l’unità e la molteplicità. Viviamo un paradosso. Più aumenta la complessità del nostro mondo, più aumenta la tentazione della semplificazione: questa si manifesta nella frammentazione dei problemi, nella frammentazione dei saperi volti ad affrontarli, che si perpetua a tutti i livelli nelle istituzioni educative.
Abitare la complessità richiede la capacità di indossare “occhiali diversi”. Ed è sul terreno dell’educazione che si giocherà la partita per realizzare il cambiamento di paradigma che il nuovo tempo esige. È la sfida di una nuova Paideia che sappia volgersi a rigenerare il pensiero, e che generi il senso dell’irriducibile legame di ogni cosa con ogni cosa, laddove il progresso delle conoscenze nei binari della parcellizzazione suscita una regressione del pensiero stesso, che rischia di fossilizzarsi nell’esercizio “automatico” delle mansioni e delle tecniche di gestione. Vale oggi più che mai il monito con cui Edgar Morin chiudeva il suo saggio nel volume che oggi rieditiamo: «se vogliamo avere ancora la speranza che si producano dei miglioramenti e dei cambiamenti nei rapporti fra gli esseri umani (…), allora questo grande salto storico di civiltà comporterà anche il salto verso il pensiero della complessità».