La questione morale, sempre evocata. La celebre intervista di Eugenio Scalfari a Enrico Berlinguer è del 1981. I tempi sono decisamente cambiati e la crisi dei partiti, che era già argomento sulla bocca di tutti, era ben diversa dalla crisi esplosa successivamente in tutto il mondo e che, in Italia, ha dovuto attraversare gli smottamenti di Tangentopoli e le sabbie mobili dell’età berlusconiana.

In effetti val la pena rileggere quell’intervista, così sincera e rigorosa. Innanzitutto, per Berlinguer la questione morale è tutta questione politica: «I partiti non fanno più politica». Tesi ripetuta anche in questi giorni da autorevoli esponenti del Pd, ma che forse meriterebbe di essere approfondita ulteriormente per almeno due motivi.

Il primo motivo è che in fondo questa tesi è un j’accuse rivolto in primo luogo a Giuseppe Conte, più che a Elly Schlein. Perché una delle tante conseguenze dannose del passaggio delirante dei primi grillini è stato d’averci costretto a rovesciare i termini della questione fino al punto di pensare che la questione morale sia la causa di quella politica e non piuttosto il contrario. Che bastava aprire il parlamento come «una scatoletta di tonno», sostituire i professionisti con dei dilettanti della politica e basta ora ritirare gli assessori da una giunta per emendare la politica e riportarla sui giusti binari.

Precisamente l’errore che sta facendo adesso Conte, nel disperato tentativo elettorale di un eterno ritorno all’anti politica della prima ora. Bisognerebbe imparare dalla propria storia, specie se così recente. La sostituzione dei corrotti coi cittadini non solo non è servita, ma ha accentuato la questione morale, in mancanza di ogni comune ancoraggio politico. Fin quando il M5s non si occuperà prioritariamente della questione politica, anche per ridurre la questione morale, che non è che un suo effetto perverso, non riuscirà a risolvere né l’una né l’altra.

PROFESSIONISTI DEL POTERE

Qui veniamo al secondo motivo, che riguarda proprio il Pd. Che, contrariamente alla narrazione che fa di sé stesso, è per certi versi assai simile al M5s dell’origine. Quest’ultimo era un insieme di dilettanti senza politica comune, il Pd assomiglia troppo spesso a un insieme di professionisti senza politica comune. I primi tenuti insieme solo dalla volontà di disfare il potere, i secondi solo ossessionati dal potere. Certo, i dilettanti sono più simpatici dei professionisti. Ma la sostanza non cambia. C’è una parola che è stata usata da Schlein e che mi ha colpito. La segretaria ha detto che non ammette attacchi alla sua «comunità». Argomento non solo comprensibile, ma anche auspicabile. Che altro dovrebbe essere un partito politico al suo interno se non una comunità? Solo che la categoria di “comunità” – come è noto – è perlomeno ambigua. Fa riferimento a un insieme di persone tenute insieme da legami forti fondati saldamente su valori comuni.

Ora, il problema del Pd è che nell’atto della sua fondazione – andando alla ricerca dell’araba fenice della vocazione maggioritaria – c’è la rinuncia a quei valori comuni. In una comunità si può stare insieme in tanti, non in troppi. Ed è proprio questo il senso profondo di quelle parole di Berlinguer a cui tutti stanno rendendo omaggio in questi giorni.

Se la questione morale è l’effetto di una crisi politica, quest’ultima è legata alla perdita di alcuni valori comuni che facevano di quel partito il punto di riferimento di una parte del paese. Val la pena riportare per intero questo passaggio dell’intervista: «Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante.

Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche – e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla Dc – non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di inoccupati, di emarginati, di sfruttati. È un delitto avere queste idee?».

LA DOPPIA EREDITÀ DEL PD

Berlinguer individua così un fondamento politico senza il quale la diversità morale della sinistra finisce col decadere e, al contempo, indica con estrema chiarezza quali siano i valori comuni che dovrebbero tenere insieme una comunità.

In queste poche righe – al di là del fatto che si sia in accordo o meno – c’è tantissimo di ciò che avrebbe voluto essere il Pd. Da un lato la rottura con una tradizione e una storia precedente per riconoscere l’insostituibilità del mercato, dell’iniziativa individuale e dell’impresa privata. Dall’altro lato la lucidità di riconoscere che i disoccupati, gli inoccupati, gli emarginati, gli sfruttati si possono difendere solo se si individuano e si combattono insieme le cause profonde che hanno ancora a che fare con il capitalismo come meccanismo sociale, se non possono più avere a che fare con il capitalismo come ideologia. Una doppia eredità che il Pd avrebbe dovuto far propria e ha invece preferito dimenticare.

Un’eredità formale: si tratta di puntellare la propria comunità su valori politici e persino divisivi, se necessario. Altrimenti sarà inevitabile che una comunità senza valori comuni finirà per essere unita solo da interessi individuali, tribali, familisti. È sconvolgente osservare la deriva familistica della democrazia, dove tutto passa da padri e madri a figli e nessuno sembra più stupirsene, se non quando ciò è accompagnato dalla corruzione. Ecco, io me ne stupisco e vorrei che se ne stupisse anche la sinistra tutta: non è normale che la selezione della classe dirigente avvenga così spesso su basi familiste, anche se ciò avviene in tutta onestà.

Un’eredità materiale: la questione politica si risolve solo se si ritorna a un’analisi politica capace di riconoscere di chi è la colpa del vizio delle diseguaglianze e, in particolare, di chiamare in causa il sistema economico e sociale. La questione morale è questione politica e la questione politica è questione sociale.

Berlinguer ci chiedeva: «È un delitto avere queste idee?» Oggi sembrerebbe esserlo. Ma se non proviamo urgentemente a riappropriarci di queste idee il delitto perfetto sarà nei confronti della sinistra.