
«Increduli e spaesati. Qui a Gaza non c’è più un posto che sia casa»
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Il tramonto dell’Occidente liberale
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Guy Debord scriveva che «là dove il mondo reale si cambia in semplici immagini, le semplici immagini divengono esseri reali». È quello che accade oggi in Medio Oriente: la “pace” proclamata da Trump esiste più nei video e nei comunicati che nella vita reale.
Fino a poche ore prima del cessate il fuoco, i bombardamenti israeliani continuavano su Gaza, già distrutta. Poi, a mezzogiorno, la tregua: il primo punto di un accordo che Netanyahu ha accompagnato con la minaccia — «se fallirà, sarà guerra».
A Gaza la gente ha festeggiato, stremata ma felice di poter respirare. Ma dietro quel momento di sollievo restano le macerie e i numeri terribili: decine di migliaia di bambini uccisi, feriti o mutilati.
L’accordo è soprattutto uno scambio di prigionieri — gli ostaggi israeliani per quasi duemila detenuti palestinesi —, non una soluzione politica. L’Autorità Palestinese è esclusa, Gerusalemme est resta capitale di Israele, la Cisgiordania continua a essere occupata. Marwan Barghouti rimane in carcere: un popolo senza guida è più facile da controllare.
Trump si dichiara “orgoglioso” della pace, ma per mesi ha sostenuto militarmente Israele. L’Italia, che ha sospeso i fondi all’UNRWA, applaude senza interrogarsi sul destino dei civili.
Eppure, in tutto il mondo, milioni di persone hanno manifestato per la fine dell’assedio e il riconoscimento della Palestina. È questo movimento dal basso, più che i governi, ad aver spinto verso la tregua.
La festa di Gaza è fragile, ma reale. La pace, invece, resta un’immagine: finché non sarà giustizia, resterà solo spettacolo.