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7 Novembre 2025
Queste riflessioni nascono dopo aver ascoltato, nel pomeriggio di ieri, le relazioni sul bilancio e sulla sostenibilità, sul presente e sul futuro della Stosa. Un’occasione per tornare a interrogarsi sul ruolo dell’impresa e sul modello di sviluppo che può assumere oggi un territorio come Piancastagnaio.
Di pierluigi piccini
Nel nuovo ciclo industriale che ha seguito la crisi delle cooperative e la trasformazione dell’artigianato in subfornitura, Stosa Cucine rappresenta un’anomalia e, al tempo stesso, una continuità.
Un’anomalia, perché è un’impresa nata sul territorio, cresciuta con capitali locali e capace di competere su scala globale senza recidere il legame con la comunità d’origine. Una continuità, perché la sua storia si inserisce nel lungo percorso del lavoro amiatino, dove eccellenza produttiva e dipendenza da sistemi più ampi continuano a convivere.
Fondata da Maurizio Sani e Perseo Stolzi, Stosa è oggi una delle principali realtà industriali del settore dell’arredo: oltre 180 milioni di euro di ricavi nel 2024, 11,5 milioni di utile netto, un piano di investimenti da 35 milioni e un export che raggiunge più di ottanta Paesi. Nel 2025 il fatturato dovrebbe superare i 200 milioni.
Numeri che collocano Piancastagnaio dentro la rete globale della manifattura italiana, in un settore – quello delle cucine – che unisce design, ingegneria e sapere artigiano.
Il successo di Stosa non nasce dal nulla: è il risultato di un capitale territoriale stratificato nel tempo, fatto di competenze manuali, disciplina del lavoro, cultura tecnica. È la traduzione industriale di una lunga storia di saper fare collettivo.
Ma è anche il segno di una nuova fase: il lavoro torna organizzato secondo logiche industriali, integrate e tecnologiche. La libertà della bottega sopravvive nella cura del dettaglio, ma l’autonomia del lavoratore si misura dentro sistemi complessi, governati da standard internazionali.
In questo equilibrio delicato tra precisione artigiana e organizzazione industriale, Stosa ha scelto di mantenere una relazione diretta con le persone: il rapporto con i lavoratori resta personale, fondato sulla conoscenza reciproca, sulla fiducia e sulla condivisione, per quanto possibile, degli obiettivi produttivi e di crescita.
È un tentativo raro, in un contesto globalizzato, di tenere insieme competenza e riconoscimento, efficienza e partecipazione.
La ricchezza che un’impresa così genera non è solo economica. È valore distribuito: salari stabili, formazione, indotto locale, reputazione territoriale. È capitale sociale che si accumula nel tempo.
In un territorio dove la storia del lavoro ha spesso oscillato tra dipendenza e frammentazione, Stosa dimostra che la qualità produttiva può diventare motore di coesione e che la competitività non richiede necessariamente disuguaglianza, ma può nascere da fiducia, competenza e responsabilità condivisa.
Stosa rappresenta così una forma matura di integrazione industriale: non più la dipendenza passiva da capitali esterni, ma un modello produttivo avanzato che genera valore e occupazione qualificata. Tuttavia, la crescita economica non coincide automaticamente con una crescita sociale condivisa.
Per questo l’azienda ha scelto di misurarsi anche sul terreno più complesso: trasformare la fabbrica in luogo di comunità, restituendo parte del valore prodotto in forma di benessere collettivo, cultura, partecipazione.
Negli ultimi anni la governance aziendale ha avviato un percorso che punta a ricucire economia e società locale: dal sostegno a progetti culturali e sportivi alla collaborazione con scuole e istituti tecnici; dalle donazioni a realtà sociali alla partecipazione diretta a iniziative pubbliche nel territorio.
Non si tratta di filantropia, ma di una strategia industriale fondata sull’idea che la competitività dipenda anche dalla qualità del contesto umano e territoriale in cui l’impresa opera.
È una forma contemporanea di responsabilità produttiva e territoriale, che riporta la fabbrica dentro il paesaggio sociale da cui era progressivamente uscita.
Il progetto dello “Stosa Green Park” sintetizza questa visione: un’area produttiva sostenibile, accogliente per chi vi lavora, integrata nel territorio attraverso il fotovoltaico, la geotermia, la gestione idrica e gli spazi comuni. Non è solo un investimento industriale, ma un modo diverso di concepire la fabbrica: luogo di produzione e, insieme, di vita.
È un progetto che restituisce alla manifattura il suo significato originario: unire lavoro e intelligenza, produzione e ambiente, tecnologia e cura.
In questa capacità di tenere insieme impresa e territorio, Stosa si colloca nella linea delle migliori esperienze italiane di industria responsabile: da Olivetti, che vedeva nella fabbrica una forma di comunità, a Ferrari, che ha trasformato la precisione tecnica in identità collettiva.
Con le dovute differenze, anche a Piancastagnaio la fabbrica diventa un fatto culturale oltre che economico: restituisce senso al lavoro e lo ancora a una dimensione umana e locale.
La forza di Stosa sta proprio qui — nell’essere un’impresa nata dentro la comunità, cresciuta con essa e rimasta, anche nell’espansione globale, legata al suo luogo d’origine.
In un territorio che sta perdendo sempre più la struttura produttiva diffusa dell’artigianato, Stosa offre un esempio concreto di sviluppo possibile: un’impresa capace di generare valore senza separarsi dal contesto sociale, di crescere mantenendo legami, di innovare senza perdere radicamento.
Quando la fabbrica si riconosce come parte della comunità, il lavoro torna a essere un elemento di coesione e di prospettiva.
La contemporaneità produttiva non si misura solo nella tecnologia o nei mercati, ma nella qualità delle relazioni che un’impresa sa costruire attorno a sé.
In questa prospettiva, Stosa rappresenta oggi per l’Amiata un punto di riferimento reale, un’esperienza che mostra come l’industria possa tornare a essere fattore di equilibrio tra economia, società e territorio.
(Piancastagnaio, novembre 2025)





