Il grande intellettuale interviene sull’ultima ondata di scontri nel suo Paese: azioni dettate da un nichilismo diffuso che viene però da lontano E che si collega a un quadro internazionale sempre più preoccupante
La Francia repubblicana dell’inizio del XX secolo era una e indivisibile. Era anche multiculturale: aveva integrato popoli diversi, come i bretoni o gli alsaziani, che avevano comunque conservato la loro cultura e, a volte, la propria lingua. Questo suo multiculturalismo si è esteso e modificato. Le prime ondate migratorie hanno preso le mosse dalla povertà dei paesi vicini: dapprima Italia, Belgio e Spagna, poi Portogallo e Polonia. Alle prime ondate sono seguite quelle di gente in fuga dalle persecuzioni: armeni provenienti dall’Impero Ottomano, ebrei provenienti dalla Russia e dalla Polonia, i Bianchi russi, i repubblicani spagnoli. Pur non essendo stati ben accolti al loro arrivo, spesso questi immigrati si sono francesizzati alla seconda generazione, mediante matrimoni misti o attraverso il lavoro.
Dopo la seconda guerra mondiale, la povertà del Maghreb e dell’Africa, unita alla necessità di manodopera a basso costo per l’industria, ha determinato nuove ondate di immigrati di colore, costumi o religioni differenti. L’integrazione dei nuovi venuti è stata più difficile. Il razzismo nei confronti dei popoli colonizzati, la segregazione parziale nelle banlieue, i fallimenti nella ricerca di un impiego, gli smarrimenti o la delinquenza di una gioventù senza futuro hanno rappresentato degli ostacoli.
Si è lentamente creata una nuova Francia, che ha conservato le proprie radici storiche e allo stesso tempo ha acquisito alcuni aspetti delle nazioni americane in cui il melting pot, più o meno riuscito, fa sì che una parte della popolazione venga trattata come se fosse composta da cittadini di serie B. Tutte queste persone umiliate, però, hanno bisogno di essere riconosciute per le loro qualità propriamente umane. Questo bisogno di riconoscimento, spesso invisibile, può esprimersi in maniera pacifica oppure, talvolta, in maniera violenta.
Disintegrazione del pensiero socialistaDalla Rivoluzione in poi, la Francia è sempre stata divisa. Tale divisione ha dato luogo a scontri, in occasione delle rivoluzioni del 1830 e del 1848 e all’epoca della Comune del 1871, oppure a forti polemiche, come nel caso dell’instaurazione della laicità o dell’affare Dreyfus.
Rimasta sottotraccia durante laprima guerra mondiale, la divisione è riemersa con più forza durante la crisi economica, sociale e politica degli anni Trenta. La sconfitta del 1940 ha permesso alla Francia reazionaria di prendere il potere e destituire ebrei e naturalizzati. La caduta del regime di Vichy, nel 1944, ne ha ridotto al silenzio i sostenitori. Poi la guerra fredda ha portato alla contrapposizione fra gli anticomunisti di destra e gli antistalinisti di sinistra, da un lato, e i comunisti, forti di un terzo dell’elettorato, dall’altro.
La crisi del comunismo, scatenata nel 1956 dal rapporto segreto di Krusciov e dal soffocamentodelle rivolte di Polonia e Ungheria, ha coinciso con l’impantanarsi della Francia nella guerra d’Algeria, che ha prodotto il putsch dei generali del 1958, il ricorso a de Gaulle e la caduta della IV Repubblica. De Gaulle, con l’appoggio di una maggioranza elettorale, ha stabilito un regime presidenziale e, nel contempo, si è affermata un’opposizione di sinistra e, intorno ai sostenitori dell’Algeria francese sconfitti, si è costituito un nucleo d’estrema destra.
La rivolta studentesca, e in senso lato giovanile, del 1968, motivata dall’aspirazione a una vita diversa da quella, addomesticata, delle generazioni adulte, ha prodotto una grande rivolta popolare e uno sciopero generale. Dopo le dimissioni di Charles de Gaulle, nel 1969, la politica francese è stata dominata dal contrasto fra destra e sinistra che, dopo due presidenti di destra (Georges Pompidou e Valéry Giscard d’Estaing), ha portato al potere il leader ufficiale della sinistra, François Mitterrand, dopodiché è tornata l’alternanza. Nel corso di questo processo la destra classica è diventata moderata e il pensiero politico socialista si è disintegrato. Il Front National, costituito nel 1972, nel passaggio da Jean-Marie Le Pen a Marine Le Pen ha attenuato la propria virulenza, è entrato in parlamento e oggi è in grado di accedere al potere.
Il maggio del ’68 ha rappresentato un momento di allarme all’interno del continuo processo di degrado delle virtù civili e di aggravamento dei vizi. La solidarietà – nelle grandi famiglie, nei paesi, nel vicinato, eccetera – si è indebolita o è svanita. Lo sviluppo dell’individualismo, positivo per quanto riguarda l’autonomia personale, è divenuto progressivamente negativo, suscitando egoismo e solitudine. L’anonimato delle grandi città si è rafforzato, a scapito delle relazioni umane e dell’attenzione verso gli altri.
Questa crisi della civiltà si è amplificata e approfondita fino a diventare, oggi, una crisi del pensiero. Viviamo sempre più sotto l’influenza di una riflessione disgiuntiva e unilaterale, incapace di collegare tra loro le conoscenze per comprendere la realtà del mondo, nel quale interagiscono materie e attività diverse. Irrigidito in discipline chiuse, il pensiero è incapace di concepire la multidimensionalità e le contraddizioni insite in uno stesso evento. Ci rende ciechi nei confronti dei fenomeni complessi della nostra vita e del nostro tempo. Il liceo e l’università forniscono solo conoscenze distinte, non è stata impostata una riforma sulla base della mia proposta – articolata nel libro I sette saperi necessari all’educazione del futuro (Raffaello Cortina, 2001) – e la scuola in crisi non riescepiù a creare integrazione.
Stato sclerotizzato
La crisi coinvolge anche il pensiero politico. Ogni politica presuppone una visione del mondo e dell’umanità, la conoscenza dell’economia e della storia, cose che appartenevano, anche se in modo diverso e antagonista, a Tocqueville, Marx e Maurras. Oggi socialismo e comunismo sono svuotati di ogni contenuto e questo vuoto, per coloro che aspirano a una società diversa, è grave.
La deindustrializzazione della nostra economia e l’industrializzazione dell’agricoltura sono due mali congiunti che aggravano la crisi di uno Stato burocratizzato, sclerotizzato e parassitato ai suoi vertici dalle lobby. La crisi della famiglia si manifesta con lo scioglimento dei legami intergenerazionali, la separazione dei coniugi, il ricovero degli anziani nelle Rsa. La crisi del sacro colpisce la venerazione nei confronti dei genitori, il senso antico dell’ospitalità, il rispetto per gli altri, l’importanza attribuita allo Stato e alla nazione. La crisi della medicina è legata al declino del medico di base – il maestro d’orchestra che coordina i saperi specializzati – rispetto agli specialisti ed è inscindibile dall’egemonia delle grandi aziende farmaceutiche sul mondo medico.
La crisi ecologica planetaria, riconosciuta dalla scienza fin dall’inizio degli anni Settanta, non minaccia solo la nostra biosfera ma noi stessi e le nostre civiltà.
Dappertutto, nel mondo, il profitto controlla Stati e società, spesso favorendo le dittature. Ovunque la democrazia è sulla difensiva e teme l’avvento di una società della sorveglianza e della sottomissione degli individui – di ciò che scrivono, fanno e dicono – al controllo digitale. La Cina ne è un esempio.
A ciò si aggiunge oggi l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia, che ci ha trascinati in una guerra internazionale, seppur limitata militarmente all’Ucraina, nella quale si confrontano due giganti, Russia e Stati Uniti, e che rischia di trasformarsi in una catastrofe mondiale.
È così che molteplici problemi si intrecciano in una policrisi planetaria. Il mio Paese è trascinato in questo turbine che, enfatizzando opposizioni e conflitti, lo divide in due. Le grandi manifestazioni contro la riforma delle pensioni non sono state solo occasione di violenze e saccheggi da parte di frange di black bloc, ma anche del superamento della critica politica a vantaggio di attacchi personali e insulti che hanno degradato il dibattito pubblico.
Dall’odio alla rabbia
Anche il linguaggio reazionario si è fortemente degradato e passa dalla stigmatizzazione imbecille dell’“islamo-gauchisme” al revival di discorsi complottisti o putinisti, mentre gli eccessi della contestazione si sono manifestati nei disordini seguiti alla giusta indignazione per l’assassinio del giovane Nahel M. da parte di un poliziotto, il 27 giugno. I vandali ci sono sempre stati, ma finora non si era visto niente di paragonabile alla furia distruttiva di questi adolescenti, talvolta solo tredicenni.
Per comprenderla dobbiamo ricordare che le banlieue non sono territori di integrazione ma di disintegrazione, nei quali si accumulano gli strascichi della colonizzazione, la disoccupazione e l’aumento della violenza della polizia e contro la polizia. Le famiglie, disgregate o impotenti, non riescono a controllare gli adolescenti in luoghi in cui proliferano traffici e gang. Il fallimento dell’integrazione a scuola, le lacune delle politiche cittadine, l’assenza di mentori, la mancanza di una polizia di quartiere e la diseguaglianza nelle opportunità fomentano rivolte e fanatismi.
Dobbiamo anche riconoscere il processo psicologico in azione: si passa dall’indignazione alla collera, dalla collera all’odio, dall’odio alla rabbia e dalla rabbia alla distruzione cieca. I ragazzi non hanno solo distrutto e incendiato autobus e automobili, hanno preso di mira edifici pubblici (commissariati, scuole, centri sociali, municipi) e persino bar e piccoli negozi.
A differenza di ciò che anima gli jihadisti, ovvero l’odio verso gli infedeli, ciò che vediamo all’opera qui è il contrario della fede: una sorta di nichilismo. Oltre la rabbia per la morte di Nahel M., sembra che l’ebbrezza di spaccare tutto e appiccare il fuoco sia stata vissuta dai suoi protagonisti come una festa nera. L’eventopuò essere letto in due modi: come rivelazione del male profondo che consuma la nostra società o come una crisi di follia adolescenziale, collettiva e passeggera.
Comunque sia, la crisi francese dev’essere situata nel quadro enormemente complesso di una policrisi mondiale e nel contesto di un arretramento delle democrazie a vantaggio delle società del controllo e della sottomissione. E sulla policrisi aleggia la minaccia di una terza guerra mondiale, iniziata in modo larvale, come un conflitto all’apparenza regionale fra la Russia e l’Ucraina.
Partendo da questa constatazione, i compiti politici che si impongono, prima di qualunque soluzione globale, sono due. Fare tutto il possibile per arrivare al più presto a una pace negoziata fra Russia e Ucraina e fare tutto il possibile per evitare che la Repubblica si trasformi, in maniera graduale o improvvisa, in una società del controllo.
Testo uscito su Le Monde Traduzione di Alessandra Neve