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di Maurizio Ferrera
Nell’era dei diritti, rivendico a gran voce il diritto all’odio. Fra le tante affermazioni del generale Vannacci, è su questa che conviene riflettere. Essa mette a nudo infatti una tensione irrisolta fra due valori su cui si fonda la democrazia liberale. Da un lato la libertà di espressione, la tutela di quello che Stuart Mill chiamava il libero mercato delle idee. Dall’altro, l’eguale dignità, la libertà per individui diversi di condurre vite diverse, «senza essere ostacolati, fisicamente o moralmente, dai loro simili» (sempre Mill). La manifestazione pubblica di odio si situa proprio al confine fra queste due libertà: si tratta di un caso limite, in cui il diritto di espressione può degenerare in licenza di umiliazione e molestia, soprattutto se i bersagli sono minoranze socialmente vulnerabili e già discriminate, come gli immigrati o la comunità Lgbtq+. La probabilità che ciò avvenga è forte, in quanto il discorso d’odio contiene spesso (seppure implicitamente) l’istigazione ad agire. Non è facile tracciare un confine chiaro. Costituzioni, Trattati e Convenzioni internazionali pongono limiti abbastanza precisi richiamando, appunto, il concetto di pari dignità: il primo nella lista dei diritti umani fondamentali. Nel caso Vannacci, il ministro Crosetto ha fatto bene a chiedere l’apertura di un procedimento disciplinare: non perché il generale ha espresso dei giudizi personali, ma perché quei giudizi sono fortemente denigratori.
Facendosi vanto di essere un servitore dello Stato, il generale ha oltrepassato di fatto il limite che separa il suo ruolo istituzionale da quello privato, gettando ombre sulla sua capacità di esercitare il primo con l’imparzialità prevista dall’ordinamento dello Stato (ad esempio rispetto all’orientamento sessuale). La Corte di Cassazione italiana si è ispirata allo stesso principio quando ha recentemente condannato un partito politico, la Lega, per aver affisso dei manifesti in cui i richiedenti asilo venivano bollati come clandestini: un termine «che ha assunto nell’utilizzo corrente un contenuto spregiativo e una valenza fortemente negativa», lesiva della dignità personale.
Per quanto necessari, i confini fissati dalla legge non bastano oggi per arginare un fenomeno in crescita in tutti i Paesi occidentali. Le categorie più bersagliate dal discorso d’odio sono i migranti, in particolare se musulmani e/o di pelle scura, gli ebrei, la comunità Lgbtq+. I pronunciamenti pubblici di disprezzo tendono a sfuggire alle statistiche, ma costituiscono il retroterra dei veri e propri crimini d’odio: il numero di aggressioni dirette contro le categorie bersagliate si è impennato negli ultimi anni. Dal canto loro, i dati d’opinione segnalano un preoccupante incremento dei sentimenti di intolleranza, delle cosiddette polarizzazioni di gruppo basate su antagonistiche distinzioni fra un «noi» (i supposti normali) e un «loro» (i diversi).
Il discorso di un singolo «portatore d’odio» (come Vannacci) è solo la punta di un iceberg. Al di sotto vi sono non soltanto attivisti fanatici pronti ad agire, ma segmenti più o meno ampi di opinione pubblica simpatetica. Il portatore spesso contribuisce a far emergere pregiudizi e forme di intolleranza latenti. Per una società liberale e democratica, questo è il rischio maggiore. Il discorso d’odio agisce come un sasso nello stagno, attiva una spirale di polarizzazione di gruppo, di radicalizzazione dei disaccordi e dei conflitti.
La conciliazione fra diritto di espressione e diritto a non essere discriminati e molestati è politicamente possibile solo se esiste un qualche terreno culturale comune, un insieme di norme condivise dai cittadini sui modi ammissibili di confronto pubblico. Anche a prescindere dai suoi contenuti, il discorso d’odio erode il terreno comune e trasforma un’idea (un punto di vista, una visione della società, una identità) in una credenza assoluta, irriducibile, spesso «tribale». La libertà di espressione diventa una clava che frantuma le basi del regime — liberale e democratico — che rende possibile l’esercizio di quella libertà. Gli Stati Uniti di Trump sono andati molto vicini a questo esito. Il linguaggio del presidente ha sdoganato parole ed espressioni impregnate di fanatismo suprematista. Come si ricorderà, dopo le elezioni del 2020, i proclami rabbiosi di Trump incitarono i suoi sostenitori ad assaltare il simbolo della democrazia americana, il Congresso.
Non è facile contenere il rischio di simili circoli viziosi. Il terreno culturale che favorisce la democrazia liberale è fragile e fatica a tenere il passo con i mutamenti sociali, fra cui l’emergenza di nuove sensibilità e domande di riconoscimento pubblico. Quanto tempo ci è voluto per abolire le discriminazioni razziali in un Paese democratico come gli Usa? La sfida da affrontare oggi è quella della diversità. Più precisamente, l’accettazione (e valorizzazione) della diversità: di genere, razza, colore della pelle, età, etnia, religione, orientamento sessuale e così via. Cito di nuovo Stuart Mill: «Perché la natura di ciascuno abbia ogni opportunità di esplicarsi, è essenziale che sia consentito a persone diverse di condurre vite diverse. Il valore che ogni periodo storico ha acquisito tra i posteri è direttamente proporzionale alla libertà che sotto questo aspetto ha concesso a chi vi è vissuto».
Con buona pace del generale Vannacci, il valore del nostro modello di società dipende dalla misura in cui sapremo rendere «normale» la diversità nel discorso e nelle interazioni pubbliche. Un percorso faticoso, che richiede molto impegno e disponibilità al dialogo, non solo da parte dei «diversi», ma da tutta la platea dei «tolleranti».