Il Nobel nigeriano torna al romanzo dopo 48 anni. E narra un Paese (il suo, ma non solo) corrotto

Cronache dalla terra dei più felici al mondo (La nave di Teseo, pagg. 566, euro 24) è un titolo pieno di ironia per un romanzo straripante di libertà, di satira, di compassione per l’umanità e i suoi inestirpabili difetti, di critica senza paura a un Paese dove la corruzione invade ogni ambito e al Potere, in tutte le sue forme, politiche, religiose, culturali, ideologiche… Del resto Wole Soyinka, nato ad Abeokuta, in Nigeria, il 13 luglio del 1934, primo scrittore d’Africa a ricevere il Nobel per la Letteratura nel 1986, paura non ne ha mai avuta, almeno non di esprimere ciò che pensa: infatti, ai tempi della guerra del Biafra, fu arrestato e rinchiuso in cella d’isolamento per le sue opinioni e, in seguito, fu costretto all’esilio dalla tirannia. In ottantanove anni dedicati alla letteratura ha scritto soprattutto opere teatrali (in cui fa rivivere la cultura e la lingua yoruba), poesie, saggi, una strepitosa autobiografia (Sul far del giorno, La nave di Teseo) e soltanto tre romanzi. Il primo, Gli interpreti, è del 1965; il secondo, Stagione di anomia, del 1973 (sono editi in italiano da Calabuig); il terzo è, appunto, Cronache dalla terra dei più felici al mondo, apparso in inglese nel 2021, quindi dopo 48 anni di «pausa». Lo presenterà direttamente lui, qui in Italia, al Salone del Libro di Torino e alla Milanesiana.

Wole Soyinka, perché è tornato al romanzo?

«È stata una costruzione avvenuta nella mia mente nel corso degli anni. Il teatro, che è il mio terreno abituale, ha dei limiti, specialmente quando uno sente l’urgenza di una narrazione sulla società stessa, come personaggio principale, come il provocatore stesso, sopra e oltre gli attori individuali. Alla fine, una società del genere esplode attraverso l’involucro del teatro e, a quel punto, la mente si attacca alla prosa del romanzo, come unico mezzo che possa contenerla. Nel frattempo, però, sei anche impegnato in altri ambiti e, quindi, devi aspettare fino a che trovi il tempo e lo spazio per confrontarti con una mostruosità a tal punto accresciuta…»

Al cuore delle Cronache c’è il potere: il suo fascino, la sua trasformazione in abuso, la sua contagiosità. Che cos’è il potere nella sua esperienza personale, che volto ha? E può cambiare?

«Sono ormai giunto alla convinzione che la storia stessa dell’umanità sia la narrazione del conflitto fra Potere e Libertà. In ogni caso, io distinguo fra Potere e Autorità. L’Autorità è una legittimità di funzioni conferita per conto di una società o di una comunità. Il Potere è l’essenza demoniaca del controllo e della dominazione su ogni ambito o attività umani, a volte esercitato in nome di bisogni secolari o della religione. Il Potere non può cambiare».

Dipinge una Nigeria profondamente corrotta, un Paese dove tutto è business: la politica, la religione, l’amicizia, i legami famigliari… È così?

«Una volta che riconosciamo come la corruzione non sia monopolio di una singola società, diventa più facile accettare che la società descritta nel romanzo sia abbastanza reale… Sono soltanto il grado e le modalità della corruzione a distinguere una nazione da un’altra. Cina, Stati Uniti, Italia, Sudafrica: in qualsiasi direzione si giri troverà una Corruzione istituzionalizzata, o sporadica, o un mix di entrambe».

Che altro è il suo Paese per lei?

«Un luogo di vita, in cui mi è capitato di essere nato, senza che mi fosse offerta la possibilità di una alternativa».

Come è stato accolto il romanzo in Nigeria, vista la sua critica così dura? Ha avuto mai di nuovo paura, dopo la sua esperienza in prigione e in esilio?

«Accade che, in questo momento, il massimo sovvertimento al senso di sicurezza di ciascuno sia il sistema di governo stesso… Accade che sia un periodo di elezioni, e che perfino l’aria sia nauseabonda e pulluli di minacce. Quanto alla ricezione dell’opera, è interessante: i politici hanno dato l’impressione di amarla, perfino coloro che si sono riconosciuti in alcuni dei personaggi…».

Nel romanzo anche chi ha delle buone intenzioni sembra poi essere travolto dalle tentazioni del potere e dei soldi. Crede sia possibile cambiare un Paese, o il mondo?

«Beh, diamo uno sguardo a quello che sta accadendo in Ucraina. L’Europa ha negoziato per l’esplosione di una tale spudorata strategia di potere? Ecco che arriva Putin, un megalomane che aspira a eliminare Hitler. Ancora più allarmante è il fatto che ci siano quelli che fanno il tifo per lui. In altri continenti, altri attendono il loro momento, mentre progettano di emularlo nelle zone del loro teatro di potere».

Nel romanzo molte parole sono utilizzate per coprire la verità, anziché per dirla: per esempio, la felicità del titolo. Il risultato è spesso umoristico, o grottesco. Perché ha usato questo tipo di linguaggio?

«Ha ragione nel sottolineare l’intento del titolo. Sarebbe altrettanto corretto considerare la scelta stilistica come un esercizio di omeopatia. Mi è venuto in mente all’improvviso un modo di dire che ho sentito per l’ultima volta molti anni fa. Il dottore fa al paziente la solita domanda sulla sua malattia, e il paziente risponde: fa male solo quando rido».

Qual è la relazione fra linguaggio e potere?

«Questa è una grossa domanda, che richiederebbe un lungo saggio. Per ora diciamo che, storicamente, il linguaggio serve il potere molto volentieri, più di quanto faccia con la verità. Vede, la verità, che spesso è troppo semplificata, in realtà implica una responsabilità e un impegno nei confronti dei valori, inclusi quelli del linguaggio. Il Potere, al contrario, rende schiavo il linguaggio, forzandolo ai suoi ordini».

Lo stile e la struttura del linguaggio sono molto complessi: come ha lavorato su di essi e quanto tempo ha impiegato?

«Ovviamente ho sperimentato. Si ricordi che il teatro è il mio vero mestiere, quindi ho dovuto lavorare a distanza dalla consueta narrazione teatrale. Prove ed errori. Quanto mi ci è voluto per l’intero processo? Credo che la domanda più semplice sia: quanto ho scartato? Risposta: almeno tre volte il volume di ciò che è sopravvissuto».

Violenza, follia, perversione, avidità, abuso: il Male ha molte facce nel corso del romanzo. Si può uscire dall’«oscurità che ci avvolge», come dice un personaggio?

«È una domanda complicata, e la risposta è complicata. Alcuni propongono apertamente la strada di un dittatore benevolo o di un re filosofo. Sfortunatamente, entrambi finirebbero in una mera demagogia – ancora una volta, la schiavitù del linguaggio – o in una tirannia ancora peggiore. Ovviamente, l’opzione teocratica è una delle peggiori: basti vedere quello che sta succedendo in Iran e in Afghanistan. Questi scagnozzi sanguinari del cambiamento attraverso la pietà sono gli artefici delle più crudeli e ipocrite sofferenze di cui facciamo esperienza oggi nel continente africano. Un inizio sarebbe una nuova educazione, fin dall’infanzia. Il rispetto del valore dell’altro, in quanto umano. Deve essere un impegno globale».

Qual è il ruolo della letteratura per lei?

«Consolazione. Come la musica».

E quali sono i libri e gli autori che l’hanno più ispirata?

«Sono un onnivoro. Niente di ciò che leggo manca di infilare un’idea nella mia testa».

Crede che la censura ci sia ancora oggi?

«I censori sono vivi e prosperano. La censura ha a che fare con il potere, e sappiamo che cosa sia il potere. E a volte, come osservato in precedenza, persino la società stessa cade nella trappola e diventa il nemico di sé stessa. Non riesce a comprendere come imporre il conformismo sia una delle forme più rozze di censura».

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