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di Fabrizio Villa
Il suo mondo è stato tutto dentro Parigi, la città della luce: con la macchina fotografica ne ha svelato l’anima nel periodo più florido del surrealismo francese. Gyula Halàsz, in arte Brassaï (1899-1984), nome adottato in omaggio alla sua città natale, Brassó, nella Transilvania allora ungherese, oggi romena, fu un artista poliedrico: fotografo, giornalista, scultore, regista, poeta e disegnatore. A quarant’anni dalla morte (l’anniversario cade l’8 luglio) Milano celebra il maestro ungherese, naturalizzato francese: le sue più importanti opere dedicate a Parigi sono esposte a Palazzo Reale nella mostra Brassaï. L’occhio di Parigi fino al 2 giugno e prodotta da Silvana Editoriale che pubblica anche il catalogo.
La bella retrospettiva, curata da Philippe Ribeyrolles — nipote e studioso del fotografo che conserva un’importante e vasta collezione di opere insieme a tutta la documentazione della vita artistica dello zio — propone oltre 200 stampe d’epoca assieme a una serie di sculture, arazzi e documenti che tracciano la personalità di uno dei più importanti e influenti fotografi del Novecento. «È strano — scrive Ribeyrolles nel catalogo — ma mio zio l’ho sempre chiamato Brassaï. Ritrovarsi in sua compagnia era ogni volta un piacere esaltante. Aveva sempre tantissime idee e non smetteva mai di condividere con me i suoi ultimi scherzi. Brassaï era davvero speciale: orgoglioso delle sue origini transilvane, quando mi invitava a seguirlo nel suo ufficio, trasformato in un appassionante gabinetto delle curiosità, si aggirava con il suo sguardo vivace e, attraverso la profonda sfericità dei suoi occhi, amava girarsi all’improvviso e fissarmi con disarmante acutezza. Mi impressionava, ma soprattutto era ammaliante».
Brassaï si trasferisce definitivamente a Parigi nel 1924, dopo aver frequentato l’Accademia di Belle arti a Budapest e poi a Berlino. Soltanto qualche anno dopo, nel 1929, acquista la prima macchina fotografica, una Voigtländer formato 6×9 a lastre con ottica Heliar 105 mm. Su suggerimento di un altro emigrato ungherese, André Kertész, fotografo e grande innovatore, inizia da subito a fotografare la Ville Lumière, allora in pieno splendore, con il grande fermento culturale che vede all’opera intellettuali, scrittori, musicisti, fotografi e la faceva sembrare la capitale del ventesimo secolo. Proprio la Parigi notturna, che frequentava con assiduità, aveva fatto nascere in lui il desiderio di fissare quelle atmosfere che amava, di catturare quegli attimi. Come dice Ribeyrolles non è stato lui a scegliere la fotografia, «è lei che gli si è imposta».
Nel 1933 pubblica il suo primo libro fotografico Paris de nuit, un racconto intimo sulla Parigi di notte, un’opera nel puro e classico bianco e nero, rimasta ancora oggi un punto di riferimento della fotografia francese. Il suo amico Henry Miller lo definisce l’«occhio vivo» della fotografia per il suo modo di cogliere l’essenza, che si tratti di gente comune, prostitute, clochard o pittori: «Brassaï ha quel dono raro che tanti artisti disprezzano: una visione normale. Vede il mondo così com’è e come pochi uomini lo vedono; perché sono rari gli uomini con una visione normale. Tutto ciò che cattura lo sguardo acquista valore e significato. Anche nell’incompleto, nel difettoso, nel volgare, Brassaï sceglie la novità e la perfezione. Esplora la crepa di un muro o il panorama di una città con la stessa pazienza e lo stesso interesse. Per lui vedere è un fine a sé stante».
Molto colto, amante di Goethe e di Proust, Brassaï scattava le sue fotografie con un cavalletto servendosi di una semplice cordicella per calcolare le distanze, fumando una sigaretta dopo l’altra per catturare la poca luce notturna, nei lunghi tempi d’esposizione. L’atmosfera era creata dai fari delle auto, dalla luce dei lampioni, dalla nebbia che saliva dalla Senna: erano questi elementi a disegnare le sue opere, che successivamente completava in camera oscura. Il risultato finale rendeva la massima espressività dell’immagine, grazie anche alla qualità della stampa, in sintonia con le sue visioni. «Un negativo — diceva — non significa nulla per un fotografo come me. È solo la stampa dell’autore che conta. È per questo motivo che ho sempre voluto realizzarle personalmente».
Se la vita notturna è ciò che lo affascina maggiormente, le immagini parigine non si fermano a quello: c’è la vita quotidiana diurna, i bistrot fumosi, la gente per strada, la Parigi segreta, i famosi graffiti, il nudo, la moda, i ritratti d’artista (tra cui Dalí, Picasso, Matisse e altri con cui instaura rapporti di frequentazione). La mostra di Palazzo Reale conduce il visitatore in quei luoghi, sulle tracce dell’artista, inducendolo a guardare come guardavano i suoi occhi. Perché Brassaï era un perfezionista della composizione sin dalla ripresa all’interno del mirino: «Bisogna eliminare — raccomandava — tutto ciò che è superfluo. Si deve guidare l’occhio come un dittatore!». Un rigore estremo, capace di catturare bellezza e poesia.