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L’humus culturale al quale ricondurre gli intellettuali di Meloni e Sangiuliano è segnato da un sentimento di emarginazione. Il fallimento della creazione di una destra conservatrice ed europea e il tentativo della premier di non commettere gli stessi errori. Omissioni e non detti
Per comprendere quanto sta accadendo oggi nel mondo della cultura, l’ansia rivendicativa e recriminatoria con cui la destra porta avanti la costruzione di un “nuovo immaginario italiano”, è necessario fare un passo indietro nella storia italiana degli ultimi trent’anni. Da quando è arrivata a Palazzo Chigi la destra ha assunto una postura persistentemente vittimistica, come se non avesse costantemente occupato posizioni di governo in questi ultimi decenni, costretta invece a subire una drammatica emarginazione da parte di una sinistra prevaricatrice che, nel racconto della destra stessa, sembra aver governato ininterrottamente per oltre trent’anni. Se non si vuole liquidare questa narrazione solo come un’abile invenzione retorica e propagandistica, se interessa comprendere cioè quali sono i meccanismi, psicologici ancora prima che politici, che inducono la destra a insistere così ossessivamente sul tema dell’egemonia culturale, mostrandosi così famelica in termini di posti e poltrone, occorre ricordare che gli uomini e le donne di destra che hanno occupato negli ultimi due decenni posizioni di vertice, la stessa Giorgia Meloni fu una giovanissima ministra dello Sport, lo hanno fatto sotto la ferma e indiscussa leadership di Silvio Berlusconi, figura egemone della destra politica italiana dagli anni Novanta del secolo scorso in poi. E a Silvio Berlusconi – questo il punto – non importava granché della cultura, soprattutto di quella istituzionale che passa per la gestione di musei, istituti, archivi, biblioteche, festival di libri, e via dicendo.
Nel 1996, le seconde elezioni alle quali Forza Italia partecipò, Berlusconi si presentò davanti alle telecamere con un drappello di sei intellettuali: Piero Melograni, Lucio Colletti, Giorgio Rebuffa, Marcello Pera, Vittorio Mathieu e Saverio Vertone. Cinque professori universitari e un giornalista, di diversa estrazione culturale e formazione politica, molti di loro provenienti dalla sinistra, accomunati dall’improbabile ruolo di testimonial della rivoluzione liberale annunciata dal partito-azienda messo in piedi due anni prima: uno storico contemporaneista, già iscritto al Pci fino al 1956; un filosofo marxista pentito; un sociologo del diritto; un filosofo della scienza studioso di Popper; un archeologo di fama; e un giornalista iscritto al Pci fino al 1983, allora opinionista del Corriere della Sera.
Lungi dal ricoprire un qualsiasi ruolo di elaborazione teorica della linea politica del partito, quei sei intellettuali furono vittime più o meno consapevoli di un’operazione di puro marketing elettorale in cui la cultura fu relegata al ruolo di semplice specchietto per le allodole. Al di là delle illusioni coltivate dai singoli protagonisti, essi si rivelarono poco più di un gruppetto di inascoltati consiglieri del principe, pronti a essere allontanati quando le regole del marketing politico-elettorale lo avessero giudicato più opportuno. A breve non a caso, dopo quella parentesi, Berlusconi gettò la maschera e rivelò il suo vero volto. Più videocassette e meno articoli di giornale: il nuovo reclutamento elettorale del 2001 fu all’insegna della videocrazia, regno nel quale il Cavaliere si muoveva senza dubbio a suo agio. “Ho più soggezione di Mike Bongiorno e di Raimondo Vianello che di una schiera di intellettuali”, disse ai suoi collaboratori alla vigilia delle elezioni politiche del 2001. “Conta di più quanto dice un uomo di spettacolo davanti alle telecamere che cento editoriali sui giornali”, sottolineò con cinico candore. Il suo profondo disinteresse nei confronti degli intellettuali e, per converso, la sua innata fascinazione per la cultura televisiva emersero in tutta evidenza. “Meno intellettuali abbiamo in lista e più la gente – che è distante anni luce da questi modi di pensare – ci apprezza”, gli fece eco Gianni Baget Bozzo, uomo di Chiesa già passato per la corte di Bettino Craxi. La televisione era l’unico orizzonte culturale al quale Berlusconi guardava. Nessun interesse suscitavano in lui le istituzioni culturali, i musei, figuriamoci le biblioteche o gli archivi.
Ebbene, Giorgia Meloni, pur senza mai esprimerlo apertamente, è convinta che Berlusconi abbia commesso un grave errore. Appena entrata a Palazzo Chigi ha imposto un brusco cambio di marcia. Sono bastati pochi mesi per comprendere che la nuova destra di governo condanna, seppur implicitamente, Berlusconi per non aver dedicato sufficiente attenzione ai temi della cultura. E’ (anche) in nome di questa condanna che Meloni e i suoi (uomini) assumono la postura vittimistica propria di chi lamenta una pluridecennale emarginazione dalle istituzioni culturali. Una postura a sua volta alimentata dalla voglia di rivalsa dell’intellettuale rancoroso, smanioso di incontrare le luci della ribalta, una “voglia di riconquista e di vendetta”, è stato scritto, riconoscibile in giornalisti, consiglieri, tecnici, portavoce, esperti a vario titolo, donne e uomini da anni in attesa di una visibilità ingiustamente negatagli, questo l’assunto di fondo, dalla presunta egemonia culturale degli intellettuali di sinistra.
L’humus culturale al quale sono riconducibili gli intellettuali cui Giorgia Meloni e Gennaro Sangiuliano dovrebbero (o potrebbero) guardare mentre progettano il loro “nuovo immaginario positivo italiano” è in effetti segnato da un profondo sentimento di emarginazione, una radicata percezione di isolamento. A differenza degli uomini e delle donne che hanno popolato l’immaginario berlusconiano, legati com’erano e come sono al mondo delle aziende e delle televisioni, gli intellettuali della destra post-fascista hanno effettivamente vissuto ai margini del panorama culturale della Prima repubblica. Hanno vissuto una condizione psicologica di esclusione in ragione del ruolo inevitabilmente periferico ricoperto nell’arco costituzionale repubblicano dal Msi, il partito intorno al quale molti di loro più o meno direttamente ruotavano, ma anche in virtù della diffidenza che coltivavano rispetto allo stesso Msi: una condizione di ghettizzazione al quadrato, dunque, vissuta peraltro da molti di loro con una buona dose di autocompiacimento. “Esuli in patria”, è la felice definizione utilizzata tempo fa da Marco Tarchi, uno dei più brillanti intellettuali della destra post-fascista, per descrivere la condizione mentale, psicologica e politica di chi si riconosceva nel Msi: doppiamente esuli in patria, dunque, gli intellettuali, all’interno della propria area politica e del panorama culturale italiano.
L’intellettuale di destra, del resto, è disorganico per definizione: così, per esempio, si definisce nella sua autobiografia Franco Cardini, storico medievista, altro intellettuale di grande spessore proveniente da quel mondo. Rifiuta cioè esplicitamente il modello gramsciano e nega al tempo stesso la ricerca di un modello alternativo, oscillando piuttosto tra la solitudine creativa, intesa anche come trasgressione intellettuale, e la tradizione, concepita come desiderio di partecipazione al comune sentire di un popolo, di una storia, di una comunità: un binomio, quest’ultimo, che mal si concilia con le forme della vita associata di partiti, fondazioni e istituzioni culturali. Lo sapeva bene anche Domenico Fisichella, il più organico tra gli intellettuali del nuovo corso di Gianfranco Fini, ispiratore di un’“alleanza nazionale” funzionale a far uscire il Msi dall’isolamento politico nel quale si trovava allora. Fisichella promosse insieme a Gennaro Malgieri, allora direttore del Secolo d’Italia, l’affermazione di una “cultura nazionale”, figlia di “Dante e di Machiavelli, di Rosmini e di Gioberti, di Mazzini e di Corradini, di Croce, di Gentile e anche di Gramsci”. Una proposta molto simile, questa, a quella presentata recentemente a mezzo stampa dall’attuale ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, con la non irrilevante differenza che Fisichella non faceva alcuna fatica a dichiarare l’antifascismo quale “momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici”, in aperta polemica con la tradizione missina. Ebbene, nei mesi immediatamente successivi alla svolta di Fiuggi, Fisichella invitò la destra a non imitare il modello gramsciano dell’intellettuale organico: “La destra ha peccato per disattenzione nei confronti della cultura ma ora non deve dare il via a una campagna acquisti degli intellettuali”, dichiarò alla stampa. “Il problema non è quello di ostentare tizio o caio. Sarebbe un grave errore perché ripeteremmo il cliché della sinistra”, sottolineò l’ideologo di An polemizzando implicitamente (anche) con la scelta dell’alleato di governo Silvio Berlusconi di esibire a favore di telecamere la sua piccola pattuglia di intellettuali. “Gli intellettuali di destra – dichiarò – sono liberi e indipendenti per natura”. Occorreva favorire la creazione di “strumenti per veicolare i valori della destra, [come] case editrici, giornali e riviste”, ma simili iniziative non dovevano in nessun modo apparire come “una nuova lottizzazione degli intellettuali sull’esempio di quanto fatto finora dalla sinistra”. “L’intellettuale organico”, tenne a sottolineare, “non rientra nella nostra visione culturale”. Gli uomini di cultura dovevano trovare i mezzi per diffondere le loro idee ma non potevano “essere incapsulati in schemi prefissati”. La destra doveva “leggere tutto, anche Marx, perché deve conoscere tutte le posizioni culturali, anche se poi giungerà a conclusioni diametralmente opposte”.
Perché la destra di Fini e Fisichella non riuscì a cogliere l’occasione è presto detto. Nonostante la lucida analisi di quest’ultimo, i rapporti tra destra e intellettuali non si mossero nella direzione da lui auspicata. Lo stesso politologo si trovò pochi mesi dopo a guardare con invidia all’incontro di Gargonza promosso dai vertici dell’Ulivo nel maggio 1997, un incontro a suo parere necessario per favorire il dialogo tra “professori e uomini di governo, tra intellettuali e politici, insomma tra la scienza e l’arte della politica” perché, come ribadì in un’intervista, “il politico di professione non sempre riesce a vedere quello che allo studioso non può sfuggire. Il primo può essere bravissimo nell’elaborare strategie ma se l’intellettuale non lo aiuta a riflettere sui fini dell’azione politica si rischia di girare a vuoto”. A destra invece prevalse la posizione di un Maurizio Gasparri, secondo cui era “meglio non avere professori” perché “un professore di meno è uno scemo di meno”. Il passaggio dal post-fascismo al neoliberismo fu repentino e privo di elaborazione culturale. La svolta politica e l’ascesa elettorale di Gianfranco Fini non furono accompagnate da un reale processo di ripensamento del proprio passato da parte del gruppo dirigente ex missino.
Uno dei giornalisti d’area più in vista, Piero Buscaroli, allora collaboratore del Giornale di Vittorio Feltri, dichiarò: “A me gli intellettuali proprio non piacciono. Anche quelli che scrivono sui giornali di destra”. Il clima di profondo disprezzo nei confronti della figura dell’intellettuale che si respirava nel partito fu uno dei principali ostacoli alla formulazione di un discorso culturale di lungo raggio. Non c’era consuetudine con l’esercizio quotidiano della cultura a livello editoriale, giornalistico e politico, proprio ciò che Fisichella lamentava. Mancava un ceto medio intellettuale di funzionari e questo rendeva la destra incapace di esprimere una qualsiasi forma di organizzazione della cultura. Un piccolo gruppo di intellettuali fu arruolato da Gianfranco Fini in occasione delle elezioni politiche del 1996, sulla scia della strategia comunicativa dell’alleato Berlusconi: il costituzionalista Paolo Armaroli, l’economista Pietro Armani, il diplomatico e partigiano di fede monarchica Edgardo Sogno, e l’attore e regista teatrale Giorgio Albertazzi. Qualche altro nome si aggiunse negli anni successivi a quella sparuta lista, senza essere tuttavia messo in condizione di lasciare un segno significativo nella vicenda politica del partito. Davvero troppo poco per sostenere una visione culturale riconoscibile.
Allora assistemmo al difficile, se non impossibile, tentativo di Gianfranco Fini di inventarsi una tradizione di destra liberale, conservatrice, europea che in Italia non era mai esistita, o non aveva mai attecchito. Un esperimento clamorosamente fallito, che finì per consegnare la destra (politicamente, ma anche culturalmente) nelle braccia di Berlusconi. Oggi Giorgia Meloni, consapevole di quel drammatico fallimento, appare fermamente intenzionata a non commettere gli stessi errori, a disegnare una parabola vincente che possa regalare alla destra una presenza più stabile nel panorama culturale italiano, anche in una prospettiva di medio o lungo periodo. Sceglie di passare attraverso un tentativo altrettanto difficile e ambiguo di conciliare la tradizione missina post-fascista con la tradizione repubblicana antifascista italiana. Lo fa attraverso un abile uso delle omissioni, dei silenzi, dei non detti, che parla di “incompatibilità con ogni nostalgia del fascismo” ma anche di una costituzione “afascista” che non menzionerebbe mai la parola antifascismo e legittimerebbe dunque un superamento del fondamenti del nostro vivere civile come sono stati sin qui interpretati dall’intero arco delle forze politiche italiane, Msi escluso, si capisce. E lo fa con un’insofferenza a volte sfacciata verso chi critica e prova a contrastare il suo disegno di occupazione di posti e poltrone ai vertici delle istituzioni culturali.
Difficile dire se questa sia la strada giusta per regalare alla destra quell’egemonia culturale che non ha mai avuto. Il rischio, molto elevato va detto, è quello di passare alla storia come un semplice tentativo della destra post-fascista di zittire gli avversari imponendosi a colpi di forza, senza alcun processo di reale penetrazione nel tessuto culturale del nostro paese.