Scendono in campo i sindacati. Il ministro della Difesa Gallant in rotta con l’esecutivo
TEL AVIV — Le strade di Tel Aviv sono un muro umano: decine di migliaia di persone circondano il ministero della Difesa, la Kiryat, il cuore della crisi che da quasi undici mesi sconvolge il Paese, da ogni lato: il grande viale di Kaplan, la piazza degli ostaggi, il Begin gate. È la rabbia che esplode, massiccia, quella che da settimane le famiglie degli ostaggi a Gaza invocavano e che solo ora, di fronte a sei corpi di giovani uccisi con colpi di pistola alla testa, arriva. Secondo gli organizzatori delle manifestazioni di protesta di ieri sera in strada sono scesi in 300 mila solo a Tel Aviv, mezzo milione in tutto il Paese. Un terremoto che forse, nei prossimi giorni, o nelle prossime settimane, sarà in grado di smuovere l’immobilismo in cui Israele pare bloccato da mesi e costringere il primo ministro Benjamin Netanyahu a un compromesso che né lui, né tantomeno gli alleati di estrema destra su cui si basa la sopravvivenza del suo governo, vogliono.
Fuochi vengono accesi nelle strade, la polizia usa i cannoni ad acqua contro i manifestanti che gridano: «Chi state difendendo?». Almeno quindici persone sono state fermate nelle prime ore di sit in.
«Gli ebrei non abbandonano gli ebrei, questo Paese sta andando verso la rovina politica. So che alcuni di voi volevano che ci fermassimo prima. Lo facciamo ora», grida alla folla Arnon Bar David, il capo di HIstadrect, il più grande sindacato di Israele, che oggi promette di fermare il Paese. Allo stop si sono aggiunte alcune delle grandi imprese dell’high tech, uno dei motori dell’economia del Paese dove però il sindacato è poco presente, ma ci sono anche tanti settori che non si fermeranno. La maggior parte delle famiglie, ma anche l’opposizione guidata da Yair Lapid, considerano lo sciopero generale l’arma finale per costringere il governo al compromesso. Da vedere se funzionerà.
Sarà la loro giovane età. Sarà che alcune delle loro famiglie – Goldberg- Polin, Gat, Yerushalmi– sono dal primo giorno in prima fila nelle proteste: fatto sta che la notizia della morte dei sei ostaggi ha fatto da detonatore a una crisi che da settimane cresceva e aspettava solo il momento per esplodere. «Sono stati sacrificati sull’altare del corridoio Philadelphi», urla Einav Zangauker, madre di Matan, a Gaza dal 7 ottobre. Conservatrice, a lungo sostenitrice del Likud di Netanyahu, dasettimane la più agguerrita delle madri di Begin gate, quella che ha detto alla stampa che anche i vertici del Mossad non ne possono più della politica del premier. E per questo è stata ricoperta di insulti.
Sul corridoio si consuma in queste ore la più grave spaccatura politica degli ultimi mesi. Ieri su X – l’ex Twitter – il ministro della Difesa Yoav Gallant ha ribadito il suo dissenso nei confronti del primo ministro. «La decisione di restare è stata presa pensando che gli ostaggi avessero tempo. Ma non c’è tempo », ha detto usando parole simili a quelle che aveva gridato alla riunione del governo sabato, quando Netanyahu aveva ottenuto dai suoi ministri la firma di un documento che impegnava Israele a mantenere il controllo della striscia di terreno al confine fra Gaza e l’Egitto. Il premier ha risposto ribadendo che non ci saranno passi indietro su questo punto.
Gallant è il volto del governo – e dell’establishment della sicurezza – che chiede un accordo. Il suo braccio di ferro con Netanyahu va avanti da più di due anni ormai, sin da quando il premier cercò di licenziarlo in piena tempesta per la riforma giudiziaria. La convivenza fra i due sembra sempre più impossibile, ma Gallant – esponente del Likud – non ha alle spalle un pacchetto di voti sufficiente a spaventare il premier. Al suo opposto ci sono i ministri dell’estrema destra Itamar Ben Gvir e Bezolel Smotrich, i cui voti sono invece fondamentali per la tenuta del governo: in questi giorni nel Likud si starebbero esplorando strade per un possibile nuovo governo senza di loro.
In mezzo resta gente furiosa: a Gerusalemme, ad Haifa, nel Nord, nel Sud, a Tel Aviv. Laici, religiosi, conservatori, pacifisti: divisi da tutto salvo che dalla richiesta di un compromesso da fare adesso.
Le immagini della veglia spontanea che si è tenuta ieri sera nei pressi della sinagoga della famiglia Goldberg-Polin a Gerusalemme riassumevano alla perfezione il dolore e la svolta che forse la morte del 23nne Hersh e dei suoi compagni di prigionia ha provocato. In strada c’erano i suoi amici, gli ultrà dell’Hapoel, la sua squadra di calcio, gli ultraortodossi che di solito stanno lontano dalla politica, i laici, i religiosi come è la famiglia del ragazzo. Tutti alla ricerca di una strada diversa verso il futuro.