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6 Aprile 2025La scommessa di Gibellina
Viaggio tra le difficoltà e gli splendori della cittadina del Belice. Dal sisma al sogno di Corrao all’occasione del titolo di Capitale italiana dell’arte contemporanea per il 2026
testo di Viviana Daloiso
L’enorme piazza coi portici è completamente deserta, tranne per l’esile sagoma di una ragazza che porta a spasso il cane. «Scatti la foto qui, guardi l’effetto della prospettiva…». L’autista rallenta, abbassa il finestrino, clic. Il viaggio a Gibellina comincia col sistema delle piazze: piazza Rivolta del 26 Giugno 1937, piazza Fasci dei Lavoratori, piazza Autonomia Siciliana… Il filo rosso che le lega è l’assenza del genere umano. Un prolungato lockdown. Solo motivi geometrici sui pavimenti di tufo e pietra lavica e strutture di metallo e ceramiche colorate, senza occhi a guardarli, senza alcun rumore a riempirle di vita. È difficile da capire, la bellezza di Gibellina. Va cercata. Non solo agli angoli delle strade, nel dedalo di case basse e uguali. Bisogna ripercorrere la storia e la storia dell’arte, in un viaggio che è a ogni istante scoperta e delusione e interrogativo: come è possibile che esista un posto del genere? E come si prepara a diventare Capitale italiana dell’arte contemporanea nel 2026? «È molto semplice: si lavora e si costruisce tutti insieme», spiega Elena Andolfi, che assieme al direttore Vincenzo Fiammetta è l’anima del Museo delle Trame Mediterranee della Fondazione Orestiadi, il baluardo culturale della città.
Costruire e ricostruire, d’altronde, sono le parole d’ordine dal terremoto del gennaio 1968, a causa del quale la città è stata cancellata dalla faccia della terra assieme a mezzo Belice: «Qui s’è dovuto affrontare il lutto, la sofferenza, la mancanza di lavoro, l’emigrazione. Alla gente rimasta senza niente lo Stato mise in mano un biglietto per partire, andarsene per sempre. Per oltre dieci anni le comunità hanno vissuto nelle baraccopoli approntate senza un’idea di futuro. L’arte e il teatro sono stati allora una delle cure per riavvicinare le cittadine e i cittadini, renderli protagonisti di una rinascita culturale e sociale insieme agli artisti, agli intellettuali, alle tante persone accorse in quegli anni a sostenere la collettività. Oggi, come allora, ancora una volta l’arte può aiutarci a ricucire strappi e fratture ».
E quante sono. Quelle del sisma, mai rimarginate del tutto: il riconoscimento formale degli enormi danni presenti su territorio, dal Parlamento, arrivò soltanto nel 1996, e i quasi tre decenni successivi non sono bastati a mettere a terra gli (insufficienti) stanziamenti necessari per la ricostruzione. E poi quelle della gente, prima abbandonata, poi dispersa in un inquantificabile esodo per cui – sembra un beffa – la nuova Gibellina, sorta a undici chilometri di tornanti dalle macerie della vecchia e su una superficie oltre dieci volte più grande, è risultata subito sproporzionata. Un involucro semivuoto, fisiologicamente inadatto a favorire la formazione di un nuovo tessuto sociale.
È in questo spazio che all’inizio degli anni Ottanta l’allora sindaco e politico di lungo corso Ludovico Corrao decise d’intraprendere un’avventura destinata a rimanere unica nella storia del Paese e forse dell’Europa intera: quella di ricominciare tutto dalle fondamenta della bellezza e della cultura, certo che per ricostruire la città servissero quelle prima d’ogni altra cosa, persino dei soldi. Spiegava le ragioni di quella visione in una delle sue ultime interviste: «L’arte può essere una via per lo sviluppo dell’uomo principalmente perché è espressione della luce e della bellezza di Dio. L’arte però non è solo questo, non è solo contemplazione, ma trasformazione dell’identità dell’uomo e del suo destino. È un modo con cui l’essere umano si confronta con se stesso. L’arte non è solo benessere, è anche la trasposizione delle sciagure, delle brutture dell’umanità la cui consapevolezza è necessaria per perseguire un ideale più alto, un ordine superiore».
Il coraggio non gli mancava: per chi l’aveva conosciuto prima della sua avventura istituzionale, passata dalle Acli alla Dc e al Pci fino al Senato della Repubblica, Corrao era l’avvocato che da solo era riuscito a cancellare dal codice penale il delitto d’onore, diventando il legale di parte civile di Franca Viola, la prima donna in Italia a ribellarsi a un matrimonio riparatore. Da sindaco di Gibellina cominciò a chiedere agli artisti e agli intellettuali siciliani di aiutarlo: li invitava in città chiedendo loro un contributo per quella terra sfregiata. «Venite a Gibellina – ripeteva –. Facciamo crescere i fiori dell’arte e della cultura nel deserto del terremoto, del destino, dell’oblio». Li ospitava, ne diventava amico, offriva loro rimesse e magazzini come enormi studi per dipingere, scolpire, scrivere. E delle opere che nascevano via via, Gibellina veniva disseminata.
Fu l’inizio della frequentazione con Leonardo Sciascia, Renato Guttuso, Ignazio Buttitta. La voce si sparse, altri arrivarono: i primi furono Carla Accardi e Pietro Consagra. Quest’ultimo in particolare alla “città nuova” dedicò metà della sua esistenza. Un attaccamento che trova nella celebre Porta del Belice, conosciuta dai più come la Stella di Gibellina, la sua plastica rappresentazione: ventisei metri di acciaio inox, visibili a chilometri di distanza, che anche oggi si parano davanti agli automobilisti della statale 188 costretti a passarvici attraverso come un’enigmatica epifania del sogno di ricostruzione fatto assieme a Corrao. Per Consagra il colosso doveva evocare le grandi architetture dell’antichità e insieme richiamare i motivi semplici e popolari delle luminarie che in Sicilia addobbano le feste di paese. Un manifesto frontale di umanizzazione: Gibellina, come l’arte contemporanea, doveva ricominciare col dare del “tu” alla sua gente, rinsaldando una relazione diretta e non mediata dall’ossessione dello scopo e della funzione degli oggetti come degli edifici.
Non a caso frontali sono le superfici della Città di Tebe e quelle del Teatro e del Meeting, i grandi edifici voluti da Consagra, un po’ abbandonati e un po’ incompiuti, che dominano il centro. Deserti anche loro, come il Nuovo sistema di piazze progettato da Franco Purini e Laura Thermes e come la chiesa di Ludovico Quaroni, una candida, utopica sfera che domina la città e che oggi si presta per lo più ai selfie dei pochi turisti di passaggio. Quelli che arrivano fin qui, il più delle volte
smarriti nei meandri di un percorso poco segnalato (e increduli per l’assenza quasi totale di strutture di ricezione e di ristoro), fanno sempre la stessa domanda: «Il Cretto dov’è?». Sottinteso: di Alberto Burri, perché al capolavoro di land art è storicamente associata Gibellina nonostante non sia qui.
Per trovarlo occorre lasciarsi la città nuova alle spalle e avventurarsi per una strada provinciale che sale sopra la vallata, e poi si infila sempre più dissestata tra le alture costellate di ulivi e pale eoliche, per quasi una trentina di minuti: solo allora, dietro a una curva, dopo aver intuito la forma di quelle che furono le baraccopoli per gli sfollati (anche queste non segnalate) ecco comparire la colata di cemento con cui l’artista umbro decise di custodire per sempre le macerie della città rasa al suolo dal terremoto. Una meraviglia di blocchi rosati e bianchi, che a ogni passaggio di nuvole cambiano forma e colore, lasciati al loro destino.
Non c’è, in questo angolo mozzafiato di Sicilia, un ufficio turistico o un qualche presidio informativo, né forma di protezione alcuna per l’opera. Lo stato di salute del Cretto non è buono: cedimenti in più punti, erbacce e radici che deformano i piani. Qualcosa che nella logica di Burri doveva avvenire per un’opera che avrebbe dovuto essere plasmata dall’ambiente e diventare tutt’uno con questo. Ma, anno dopo anno, il Cretto è messo seriamente a rischio. La speranza è che i fondi in arrivo per trasformare in realtà l’ambizioso dossier con cui Gibellina e il Belice hanno strappato l’elezione a Capitale dell’arte contemporanea per il 2026 servano allo scatto che finora è mancato: quello del prendersi cura di un patrimonio dal valore enorme, offuscato dalla trascuratezza. Un milione di euro arriverà dal ministero della Cultura, altri due milioni e mezzo dalla Regione: i progetti e i percorsi individuati vanno da mostre a laboratori e itinerari al coinvolgimento attivo delle comunità, dei giovani, delle scuole.
Pilastro di tutto questo, assieme al Museo di arte contemporanea di Gibellina, è proprio la Fondazione Orestiadi (creatura anch’essa di Corrao e di cui oggi è presidente la figlia Francesca Maria), che dagli anni Ottanta promuove l’omonimo Festival: un evento che è un pezzo di storia e cultura della Sicilia e del nostro Paese, e da cui è nato il Museo delle Trame mediterranee, scrigno di opere contemporanee dominato dalla Montagna di sale di Mimmo Paladino. È qui che si tocca già la città del futuro: percorsi dedicati e inclusivi, spazi ariosi, un’illuminazione degna di un museo da grande capitale, opere straordinarie (dalle macchine di Pomodoro alle cancellature di Isgrò), collezioni di gioielli e di tessuti provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa, un cartellone fitto di iniziative tra gli spazi della grande tenuta e il Cretto.
Non è un caso se il numero dei visitatori s’è impennato negli ultimi anni, con un secco 30% in più nel solo 2024 (e un passaggio di quasi 14mila persone). Gibellina, si può fare.
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