Viaggio a Madrid nelle stanze della fondazione dell’archistar Dove il maestro, a 88 anni, lancia con i giovani designer nuovi progetti sostenibili destinati alle metropoli del futuro
AMADRID
ottantotto anni Norman Foster è una forza della natura. Prototipo dell’archistar, la figura del super architetto affermatasi nella seconda metà del ventesimo secolo, negli ultimi sessant’anni ha progettato di tutto e dappertutto: dalla sede della Hong Kong and Shanghai Bank a Hong Kong alla metropolitana di Bilbao, dalla cupola del Reichstag di Berlino al Millennium Bridge di Londra, dal Campus Luigi Einaudi a Torino all’Apple Park di Cupertino, in California. L’innovazione tecnologica e l’esprit di questi progetti, dai primi lavori nei Faboulous Sixties alle commissioni più recenti del suo studio globale Foster and Partners, sono in mostra nelle stanze della Norman Foster Foundation di Madrid, che l’architetto di Manchester, oggi barone di sua maestà – nato in una famiglia di operai, lascia la scuola a 16 anni, entra nella Royal Air Force, torna a studiare, si laurea, grazie a una borsa di studio finisce a Yale e da lì non si ferma più – ha creato nella città della terza moglie, la psicopatologa ed editrice Elena Ochoa.
Nata nel 2017 e ospitata in una villa del rarefatto quartiere di Chamberí, la Fondazione è una sorta di casa di bambole contemporanea dove trovano posto non solo gli archivi di Foster, i suoi disegni, i plastici dei progetti ma anche, in un padiglione da lui ideato, le sue fonti di ispirazione: dalla miniatura della Wichita House di Richard Buckminster Fuller, esempio di quello streamlined design aerodinamico e futuristico che affascinò Foster nei suoi anni americani, fino ai modellini di auto e aeroplani, le passioni di una vita. La Fondazione poteva rimanere solo il giocattolo della maturità di un fuoriclasse,un elegante monumento in vita, e invece si è trasformata in un catalizzatore di scommesse sul futuro. Impegnata fin dalla creazione in attività di ricerca, seminari e workshop per architetti e urbanisti da ogni continente, la Foster Foundation ha creato in questi anni quello che il fondatore definisce «un network di menti internazionale» e dà ora vita al Foster Institute, un’istituzione dedicata alla didattica, alla sperimentazione, alla condivisione della conoscenza sui temi della sostenibilità e della vita urbana. La prima iniziativa lanciata dal Foster Institute è ilProgramme on Sustainable Cities, in collaborazione con l’università di Madrid: una trentina di giovani uomini e donne – architetti, urbanisti, designer, ingegneri, psicologi, giovani professionisti già formati – sono già arrivati nella capitale iberica, da 22 paesi del mondo, per lavorare inteam, guidati da docenti di alto livello: tra loro Kent Larson, direttore del City Science Group del Mit di Boston, Dava Newman, che sempre al Mit guida il Media Lab, e l’architetto Francis Kéré, l’urbanista Vishaan Chakrabarti. Con un approccio più pratico e più sperimentale di quello consueto nell’alta formazione, l’accento è sullo sviluppo delle città. Perché, nonostante ogni sogno di bucolica arcadia, è soprattutto nelle città che la specie umana continuerà a vivere e anzi, vivrà sempre di più. I numeri li cita lo stesso Foster accogliendo a Madrid gli allievi del programma e parafrasando Churchill: «Noi modelliamo le città e le città ci modellano». Entro il 2050, due terzi dellapopolazione mondiale vivrà nelle città, che già oggi producono il 90 per cento della ricchezza mondiale, ma anche il 70 per cento delle emissioni. È quindi lì che si combatte la battaglia per il cambiamento climatico, e non solo: la lotta alla povertà e alle diseguaglianze passa per le metropoli. «Le città non sono statiche: si modificano, crescono, cambiano» nota Foster, chiedendo: «Vogliamo che le decisioni sulle zone urbane siano razionali, basate su dati e fatti, o che siano determinate da mode o pregiudizi? Queste decisioni saranno condivise con le comunità su cui avranno un impatto, in modo che possano partecipare e anzi stimolare il cambiamento, o saranno imposte dall’alto?». Così, con uno sguardo bifronte che da un lato si rivolge agli amministratori civici e dall’altra aipractitioner, come si usa chiamare gli architetti nel mondo anglosassone, le parole d’ordine sono partecipazione e innovazione tecnologica. L’insistenza sull’intelligenza collettiva come chiave per le sfide del futuro può sembrare una torsione per Foster, identificato così fortemente con i suoi edifici, ed è invece l’ultima manifestazione del Dna di uno sperimentatore: lavorare in modo interdisciplinare, mettendo insieme generazioni diverse, è l’unico metodo per andare incontro a undomani che fa tremare i polsi.
Il programma sulle città sostenibili nella sua prima annualità lavorerà, con ampio uso di programmi sperimentali di analisi dei dati, su tre città pilota, tutte in Europa, per poi allargare lo sguardo agli altri continenti. Sono Bilbao, Atene e San Marino, realtà che Foster e il suo team già conoscono grazie a progetti precedenti sul territorio e al ruolo di Foster come Advocate del forum dei sindaci istituito dalle Nazioni Unite sugli obiettivi dell’Agenda 2030. Se per Atene il tema più pressante è la mitigazione dell’innalzamento delle temperature e per Bilbao il cambiamento degli equilibri demografici, per San Marino, spiega Stefano Canti, segretario di stato per il territorio, l’ambiente e l’agricoltura il focus è «riqualificare, secondo principi green, lo sviluppo urbano che la Repubblica ha avuto negli anniDuemila. Siamo un piccolo territorio, in cui le sperimentazioni possono essere prese in considerazione perché sono più visibili». A sostenere i progetti è un’idea di urbanizzazione che è un’inversione di rotta rispetto alle metropoli espanse e onnivore del XX secolo: il modello è quello delle Dense Compact Cities,che smettono di consumare territorio e ottimizzano i consumi, ripristinano i centri di aggregazione, hanno un sistema di trasporto pubblico efficace che limita l’uso delle auto, e raggiungono l’obiettivo dei “15 minuti”, distanza ideale dai servizi essenziali, scuole e presidi medici, ma anche dai luoghi di intrattenimento.
Insomma, città vive e dotate di spazi verdi. L’alternativa? Uno sviluppo disordinato, che taglia fuori le fasce più fragili della popolazione da qualunque ipotesi di emancipazione sociale. Come avverte il cileno Alejandro Aravena, Priztker Prize nel 2016 e ordinario al Politecnico di Milano per chiara fama, anche lui tra i docenti del programma, che con Elemental S.A. si occupa di edilizia sociale in Cile e in Sudamerica, è questa l’altra tendenza drammatica, oltre il cambiamento climatico, che non possiamo ignorare: «Risolvere il problema della casa senza risolvere il problema delle città, ossia la redistribuzione delle opportunità, è l’errore che abbiamo fatto e non possiamo più permetterci. Le periferie delle metropoli, senza servizi, nudi agglomerati di case, si sono trasformate in luoghi senza legge, in cui la gente non ha niente da perdere e si consegna ad altre forme di potere, potere criminale, come i narcos nel caso sudamericano. Le città sono un magnete che attrae intelligenze e opportunità, ma al tempo stesso sono bombe a orologeria. Sta a noi fermare il congegno».