Il presidente Sergio Mattarella, prima di essere prestato alla politica dopo l’uccisione del fratello Santi, era un professore di diritto parlamentare. Chissà se la maggioranza gli risparmierà il calice di dover leggere una riforma costituzionale che contraddice la Costituzione e tutti i manuali di diritto parlamentare. Ad oggi il rischio è altissimo. Infatti l’accordo nel centrodestra sugli emendamenti al premierato, che dovrà essere esaminato dai leader, si basa su una proposta della Lega che è un unicum in tutti le Repubbliche parlamentari: addirittura più unicum dell’elezione diretta del premier. Non a caso i giuristi consulenti del ministero delle Riforme stanno sollevando «perplessità», come eufemisticamente trapela.

Com’è noto il nodo del contendere nella coalizione riguarda i poteri del premier eletto dal popolo. Nel testo originario del disegno di legge Casellati, i suoi poteri non erano aumentati rispetto a quelli attuali: addirittura ne aveva di più il «premier di riserva», vale a dire chi gli subentrava in caso di caduta. Questi aveva il potere di minacciare lo scioglimento anticipato delle camere, non il premier eletto, il cui solo potere era il mandato popolare stesso. Fratelli d’Italia chiedeva dunque di estendere al premier eletto la stessa prerogativa, vale a dire la possibilità, in caso di sfiducia, di chiedere le elezioni anticipate al presidente della Repubblica: in sostanza il famoso simul stabunt, simul cadent. Una soluzione che né a Lega né a Forza Italia piace; i due junior partner di Meloni chiedono un bilanciamento tra i poteri del premier eletto e quelli dei partiti della coalizione che lo hanno sostenuto alle urne. In fin dei conti, lui (o lei) ha vinto proprio grazie alla coalizione.

E qui entra in campo Roberto Calderoli, l’inventore del sistema elettorale da lui stesso definito «Porcellum», bocciato dalla Corte costituzionale nel 2014. Ed ecco la sua mediazione: distinguere tra fiducia e fiducia. In barba ai manuali di diritto costituzionale e di diritto parlamentare, per i quali un governo deve avere la fiducia delle camere, che se viene revocata fa cadere il governo stesso. Se dunque – dixit Calderoli – il governo viene sfiduciato con «una mozione motivata», allora il premier può chiedere lo scioglimento delle camere al capo dello Stato «che emana il conseguente decreto». Ma se non gli viene accordata la fiducia che egli pone su un provvedimento o su una singola norma, allora deve dimettersi lui (in quanto sfiduciato) ma non può chiedere urne anticipate. La logica è tutta interna alla coalizione di centrodestra, o meglio di destracentro. Meloni vuole l’elezione diretta del premier, e l’avrà, per la sua propaganda, ma non può pensare a puntare a un futuro mandato plebiscitario per se stessa che le consenta di essere la «domina» assoluta della politica: conta anche la coalizione, che anzi è un bilanciamento del parlamento rispetto al governo. La logica è stata accettata da Fratelli d’Italia, con l’eccezione di Marcello Pera che anche ieri ha sparato a palle incatenate con l’agenzia Adn Kronos contro l’accordo.

Il punto è che la fiducia o c’è o non c’è. Il governo, nelle Repubbliche parlamentari, si basa sul rapporto fiduciario tra esecutivo e parlamento: o fiducia o sfiducia. Non esistono novantanove sfumature di grigio. I costituzionalisti consulenti del governo lo hanno spiegato sia a voce che per iscritto. A questo punto l’atteso vertice tra i tre leader Meloni, Salvini e Tajani – che potrebbe svolgersi proprio oggi -, non dovrebbe dare solo la «bollinatura» all’accordo, in vista degli emendamenti da presentare lunedì. Dovrebbe anche prendere una decisione più grave. Dare il via libera a qualcosa che tutti e tre sanno essere costituzionalmente insostenibile. E preparare un calice colmo di fiele per Sergio Mattarella.