Mediobanca spariglia le carte del risiko bancario con un’offerta da 6,3 miliardi su Banca Generali, la società di risparmio gestito controllata al 50,17% da Generali. Nagel: «Non è un’azione difensiva ma offensiva».
di MASSIMO GIANNINI
Non è la “fine della storia”. Ma poco ci manca. In quattro mesi sta succedendo quello che non è mai successo in quasi 14 anni. Oggi come sempre, il campo di battaglia è lì, tra Milano e Trieste, dove si concentra quel poco o tanto che resta dei poteri forti. Da una parte Mediobanca e Generali, l’ex “salotto buono” della finanza e l’ex “magnifica preda” che custodisce in cassaforte polizze, mattoni e debiti sovrani degli italiani. Dall’altra parte le vecchie e nuove “mosche del capitale”, per dirla con l’immenso Paolo Volponi, che cercano di allungare le mani sugli ultimi gioielli della famiglia italica scampati alle grandiose svendite degli anni Novanta. In mezzo, una destra spregiudicata e affamata che da Roma, cavalcando le scorribande degli aggressori, punta a espugnare le casematte degli aggrediti.
Della Belle Epoque manca l’epica (benché in quei mondi non abbia sempre coinciso con l’etica). Mancano i grandi banchieri: gli Adolfo Tino, i Raffaele Mattioli, gli Enrico Cuccia, gente che ha segnato comunque i destini del Belpaese. Mancano le grandi dinastie: gli Agnelli e i Pirelli, gli Orlando e i Pesenti, e tutti i soliti noti dell’industria che fu. E mancano i grandi politici, nel male e nel bene: da Andreotti a Craxi, da Amato a Ciampi, fino ad arrivare a Prodi e al Cavaliere. Ma alla fine l’oggetto della contesa resta sempre lo stesso: i manager che gestiscono sono troppo autoreferenziali, gli azionisti che ci mettono i soldi vogliono contare di più, e i politicanti che governano ne vogliono approfittare per spartirsi territori e aree di business. Per andare sul concreto. Su un fronte ci sono Alberto Nagel e Philippe Donnet, “ceo” di Mediobanca e di Generali, che difendono le rispettive trincee. Sul fronte opposto ci sono Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri, soci rilevanti di entrambe le società, che ai due suddetti amministratori danno la caccia da anni. Il governo dovrebbe fare l’arbitro e invece gioca a sua volta la partita, prima con la “legge capitali” che avvantaggia le liste di minoranza nei cda, poi con l’uso strumentale del golden power, su Unicredit-Bpm e sugli altri dossier cari a Giorgia e ai suoi Fratelli.
«Noi siamo sereni, ma non molliamo. L’autonomia della banca è sacra, e la difenderemo come abbiamo sempre fatto…». Sono mesi, ormai, che chiunque varchi il portone di quella che una volta si chiamava Via Filodrammatici respira quest’aria da fortezza assediata. La solenne Sala Consiglio, dove dalla boiserie in noce antico ti guardano gravi i volti incorniciati di tutti i presidenti del passato, da Merzagora in poi. Il mitico ufficio dello stesso Cuccia, ancora intatto con tutte le sue modestissime reliquie, dove il gran sacerdote del tempio del denaro ha guidato i più grandi affari del secolo. Oggi quelle stanze ovattate le abita Nagel, che come il suo venerato maestro crede di condurre la stessa “guerra di indipendenza”. Questa sarebbe la quarta, dopo quella sui salvataggi Montedison e Fiat degli Anni ’80, quella sulle privatizzazioni tra il ’93 e il ’96 e quella contro le incursioni berlusconiane tra 2009 e 2012. Già allora Nagel tuonava: «Siamo riusciti a mettere fuori gioco Geronzi e Bollorè, e per la prima volta noi manager abbiamo ristabilito il primato dell’autonomia e dell’indipendenza… E siamo noi che, da allora, abbiamo traghettato Mediobanca nell’era moderna, facendola diventare una banca d’affari che ragiona in un’ottica di puro mercato…».
Se oggi parlasse a cuore aperto, probabilmente direbbe le stesse cose. Ma ricorda la lezione di Don Enrico: «Il peccato veniale di un banchiere è fuggire con la cassa, quello mortale è parlare». Per questo, dopo essere scomparso dall’ufficio per due settimane, ora in conferenza stampa si limita a sottolineare che l’Ops da 6,3 miliardi con i titoli di Banca Generali «non è difensiva ma offensiva, perché serve a rendere più forte Mediobanca». Una mezza favoletta per i gonzi. Nagel — uno che sul mercato aperto lo batti difficilmente — in questi anni ha già respinto tre volte l’offensiva del tandem Caltagirone- Delfin per far saltare la governance a Milano e a Trieste. L’ultima è stata la settimana scorsa, quando in cda di Generali la lista di maggioranza ha superato di nuovo quella dei soci minori, blindando la poltrona di Donnet.
Ma Nagel sapeva altrettanto bene che il “partito romano” meditava la rivincita con l’Ops di Montepaschi, che puntava dritta proprio su Piazzetta Cuccia. Con la mossa su Banca Generali, e la cessione definitiva del suo 13% in Generali, il manager vanifica l’assalto: che se ne fanno Caltagirone e Milleri di Mediobanca, se in pancia non ha più quella gallina dalle polizze d’oro? Se ti sposti nella Capitale, nella piccola ma sontuosa Versailles a ridosso di Parioli dove abita il “Calta”, il clima è pesante. “L’industriale più liquido d’Italia” non si rassegnerà mai alla ritirata. E qui, al di là dei moventi industrial-finanziari, questa quarta guerra d’indipendenza la spiegano anche le incompatibilità caratteriali e persino antropologiche. Uno, bocconiano e un po’ cosmopolita con famiglia a Londra, banchiere nato e cresciuto dentro Piazzetta Cuccia, simbolo della finanza laica che fu. L’altro, romano doc, ingegnere smagato e navigato, vicino ai Palazzi e capace come nessun altro di guadagnare sututto, dalle grandi opere all’immobiliare, ma con un sogno ancora irrealizzato: affrancarsi dalla dimensione troppo capitolina — che di lui fa dire a Geronzi «è il migliore imprenditore di Roma» — ed entrare con tutti gli onori nella prestigiosa galassia del Nord. C’è un passato che non passa, tra i due rivali. L’unico momento in cui si sono ritrovati dalla stessa parte è stata la “congiura” che nell’aprile 2011 costò la presidenza del Leone di Trieste a Cesare Geronzi, e lui sparò a zero contro il “traditore” Caltagirone e il “mandante” Nagel, che «cercava di fare sempre tutto da solo senza informare gli azionisti». Ma a parte quel caso, gli scontri sono stati continui: dal dopo Maranghi all’affare Fonsai-Unipol, dalla gestione Perissinotto all’oscura vicenda Kellner. Ogni occasione è stata buona. Per Caltagirone, di sparare sul Quartier Generale, reclamando più condivisione nelle scelte strategiche e più remunerazione del capitale investito. Per Nagel, di blindarsi con il sostegno dei fondi, invocando i buoni risultati e la libertà d’azione del management.
Per ora il Banchiere respinge di nuovo l’Ingegnere (sempre che la sua manovra sia approvata dalla semplice assemblea ordinaria e Consob e Ivass non sollevino obiezioni sul mancato rispetto della passivity rule ).Resta l’ultima incognita, che è ancora una volta la politica. La Sorella d’Italia finora ha sostenuto Caltagirone e Milleri. Cos’altro può inventare per ribaltare i rapporti di forza? Difficile dire. Nel frattempo una frase chiave di Nagel, consegnata ai cronisti, dice tutto. A domanda «è soddisfatto del ruolo che sta esercitando il governo», l’allievo di Cuccia sorride: «Qual è la domanda successiva?». Difficile dargli torto. Parafrasando la vecchia, fulminante metafora che Guido Rossi coniò all’epoca di D’Alema premier e della rovinosa scalata dei “capitani coraggiosi” a Telecom, oggi palazzo Chigi resta l’unica merchant bank in cui si parla romano.