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18 Novembre 2023Chiara Saraceno
Di solitudine ci si può ammalare. Può diventare una malattia che riduce la voglia di vivere, la capacità di sperare, di avere fiducia in se stessi e negli altri ed allo stesso tempo aumenta i rischi di ammalarsi di malattie convenzionalmente definite come tali, ad esempio, tra gli adulti e anziani, Alzheimer, deficit cognitivi, malattie cardiache. Presenta rischi di mortalità simili a quelli associati al fumare 15 sigarette al giorno, all’essere obesi, al non fare attività fisica, all’inquinamento. Non si tratta di un fenomeno marginale e neppure limitato ai paesi sviluppati, dove i legami comunitari sono più deboli. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, la solitudine sta diventando un problema sanitario globale, che attraversa tutti i confini nazionali, di grado di sviluppo, di età.
Si ritiene che la solitudine sia un’esperienza che riguarda prevalentemente gli anziani, perché, a causa dell’età e del venir meno di alcuni ruoli e attività, hanno reti sociali più ristrette. Molte iniziative che vanno sotto l’etichetta dell’invecchiamento attivo sono intese proprio a contrastare questo progressivo restringimento di attività e delle relazioni e senso di sé che ne deriva, con conseguenze anche sulla salute fisica e mentale. La stessa Oms ha dapprima affrontato la questione della solitudine e del suo impatto sulla salute solo per quanto riguarda gli anziani. Eppure – secondo i parziali dati disponibili – la solitudine, con le sue conseguenze negative sul benessere, riguarda nel mondo anche tra il 5 e il 15% degli adolescenti, con un’incidenza superiore in Africa, dove toccherebbe punte del 17,2%, rispetto al 5,3% in Europa, smentendo l’idea che la solitudine sia una malattia, o persino un lusso, dei ricchi e/o la conseguenza dell’individualismo. La solitudine non coincide con il vivere da soli, condizione diffusa tra gli anziani, specie le anziane, nelle società sviluppate. Si può vivere da soli ma essere/sperimentarsi parte di, inclusi in una rete sociale che fornisce non solo aiuto, ma anche senso di sé, fiducia. Viceversa si può vivere con altri e sentirsi esclusi, o isolati. Succede in famiglia, a scuola, sul lavoro, nella propria comunità. Si parla di solitudine come esperienza di isolamento, di non poter contare su legami significativi, di non essere compresi, di non appartenenza.
Secondo la rappresentante africana della gioventù che fa parte della Commissione, tra i giovani africani la solitudine scaturisce dal vivere in contesti in cui la pace è sempre in pericolo, la sicurezza anche personale fragile, i tassi di disoccupazione elevati, le prospettive per il futuro incerte. In questa descrizione, che può riguardare anche molti giovani europei in particolare italiani pur con le dovute distinzioni, emerge come, lungi all’essere vuoi un rischio, vuoi un lusso della ricchezza, la solitudine sia una malattia che colpisce chi è più vulnerabile a livello sociale.
Soprattutto per quanto riguarda gli adolescenti e i giovani, il fenomeno è emerso durante la pandemia Covid19, quando le relazioni sociali faccia a faccia sono state a lungo interrotte e il tempo quotidiano si è dilatato, perdendo forma e struttura. Ma probabilmente la situazione pandemica ha fatto da detonatore a un fenomeno già presente anche tra gruppi sociali e di età, oltre che in aree del mondo, che ne venivano considerati al riparo. Per dare seguito a questa consapevolezza l’Oms ha appena istituito una commissione di esperti perché fornisca consigli e indicazioni sull’impatto dei legami sociali sul benessere. Non vi è dubbio che i concetti di solitudine e di connessione sociale siano complessi e in parte controversi, e i loro indicatori di non agevole individuazione. È tuttavia interessante e importante che le esperienze che richiamano, le condizioni soggettive ed oggettive di isolamento sociale e il malessere che producono, comincino ad essere definiti anche una questione di salute, individuale e sociale.