Washington evacua il personale non necessario dalle ambasciate mediorientali, a partire da quella in Iraq: a conferma che la situazione nella regione si sta facendo critica. La trattativa sul nucleare con Teheran è in stallo, mentre la pressione israeliana per risolvere manu militari la questione è forte.
Donald Trump è a un bivio: perseguire l’accordo, e allora la scelta adottata non sarebbe che l’ennesima, spregiudicata, mossa del giocatore d’azzardo tornato alla Casa Bianca; o dare via libera all’attacco, destinato, per implicazioni e prevedibili reazioni, a essere totale.
Perché mirato a paralizzare l’Iran non solo militarmente e tecnologicamente ma anche nella vita quotidiana. Scenario che mette in conto la distruzione dei siti nucleari ma anche la possibile caduta del regime.
Disegno annessionista
Nella nuova dottrina strategica di Israele post 7 ottobre, che teorizza il ridisegno di lungo periodo dell’intero assetto geopolitico regionale al fine di garantirne la sicurezza, repliche come l’attacco, nell’èra Saddam, al reattore iracheno di Osirak sono considerate lenitive, funzionali solo a guadagnare qualche anno.
L’evoluzione tecnologica, la natura degli attori politici, gli equilibri mondiali, hanno accorciato i tempi di riproposizione delle sfide. Per l’estrema destra israeliana ciò che conta è affermare il disegno annessionista, impedendo a chiunque, tanto più a uno «stato-terrorista», di rappresentare una minaccia alla propria libertà d’azione.
Se guerra sarà, dunque, dovrà mettere in conto la possibilità di far collassare l’Iran, anche favorendo lo scatenarsi di quella rivolta interna sin qui capace di delegittimare il potere ma incapace di affermarsi per assenza di opposizione organizzata, repressione capillare, timore del vuoto.
Un conflitto a somma zero che può iniziare solo con l’avallo americano, necessario per garantirne la piena riuscita militare e attutire i contraccolpi nei confronti degli alleati Usa nella regione, paesi del Golfo in primis. Difficile, infatti, che i Pasdaran accettino di abdicare senza colpo ferire: se tutto è in gioco, i Guardiani si giocheranno tutto.
Visto da Trump
Per Trump la fine della Repubblica islamica consentirebbe non solo di eliminare uno stato ostile ma anche di chiudere gli Accordi di Abramo, monchi senza l’adesione dell’Arabia Saudita, la grande rivale sunnita dell’Iran sciita, a quel punto senza più il fantasma del temibile concorrente per il monopolio politico e religioso dell’islam.
Una grande tentazione, per il presidente-tycoon: anche perché gli offre la possibilità di fare dell’Iran un grande mercato di novanta milioni di consumatori, destinato a diventare sbocco di esportazioni e investimenti made in Usa.
Scenario che seppellirebbe anche la questione palestinese, permettendo di trasformare Gaza nella sognata Palm Beach mediterranea. Se ne sarà convinto, Trump darà l’ok. Altrimenti, minaccerà ma tratterà, tornando all’accordo stipulato da Barack Obama che, almeno, permetteva un certo controllo sull’arricchimento dell’uranio: venuto meno quello, i settori più oltranzisti del regime hanno spinto in alto quella soglia, giunta, anche secondo l’Aiea, a livelli pericolosi.
Teheran ha una linea rossa: il nucleare per uso civile, che potrebbe avere un futuribile impiego dual use. Prospettiva che, secondo ambienti legati a Trump, come la Heritage Foundation, rappresenterebbe una sfida per la sicurezza Usa, da impedire con la forza in caso di insuccesso diplomatico.