Prigioniera dell’ossessione che fu il mantra di Silvio Berlusconi, monumentale personificazione del conflitto di interesse, e dunque insofferente a ogni forma di controllo che non sia l’ordalia del voto popolare, la destra al governo mette mano al processo e al codice penale, battezzando con enfasi come “riforma” quella che, a ben vedere, è soltanto una sciagurata vendetta. Contro la magistratura penale e contro il giornalismo. Garanti, in forma diversa, di due capisaldi di ogni democrazia matura: il controllo di legalità e la trasparenza dell’agire pubblico. E, per giunta, lo fa con l’ukaze del ministro di Giustizia Carlo Nordio che, nel tripudio dei pasdaran, intima alla magistratura associata di non disturbare il manovratore perché priva del “diritto di criticare le leggi”. Un’enormità. Che la dice lunga sul furore ideologico che anima questa destra, sulla sua cultura istituzionale, sulla sindrome del nemico che la muove.
Del resto, mai come questa volta il quadro è nitido. Dopo essere stati sonoramente sconfitti nell’estate dello scorso anno nei referendum sulla giustizia, di cui l’attuale ministro Nordio era stato uno dei più convinti sostenitori, Lega e Forza Italia riesumano l’ipocrita parola d’ordine della “Giustizia giusta”. E, benedetti dal cinismo di FdI (impegnato nell’opa totalitaria sull’elettorato di centro-destra) e dall’opportunismo interessato del Terzo Polo, lo fanno intervenendo in modo sgangherato e selettivo su un unico capitolo della giustizia penale. Quella dei cosiddetti colletti bianchi. Dunque, dei reati contro la pubblica amministrazione.
Nel Paese che vanta uno tra i più alti tassi di corruzione dell’eurozona, il reato di abuso di ufficio viene così cancellato con argomenti un tanto al chilo. Si dice: la norma rendeva di fatto impossibile ai sindaci italiani di assumere qualunque decisione discrezionale per il terrore di subirne conseguenze penali. Per giunta – si aggiunge – il reato, una volta contestato, quasi mai produce effetti penali (nel 2022, 18 condanne su 5 mila procedimenti avviati). Il che dimostrerebbe che non è necessario. Ora, non si comprende per quale motivo dovrebbero essere espunti dal codice penale singoli reati sulla base della loro incidenza statistica. A maggior ragione, poi, se a farlo è lo stesso governo che ha introdotto con norme di urgenza il reato di rave (notoriamente un’emergenza nazionale per la quale in questi otto mesi sono fioccate condanne e procedimenti in ogni angolo d’Italia). Perché se il criterio della depenalizzazione dovesse essere solo quello dell’“efficienza del sistema” (e non quello del “disvalore” che una comunità attribuisce a una determinata condotta) allora, insieme all’abuso d’ufficio, molti altri reati dovrebbero conoscere l’oblio. La verità è che i sindaci italiani non chiedevano affatto l’abolizione dell’abuso di ufficio, reato introdotto nel 1990, ma una sua ulteriore riformulazione dopo quella (2020) che, per altro, aveva già eliminato ogni possibile intervento del giudice penale su materie oggetto didiscrezionalità dell’amministratore pubblico. Si trattava dunque di tipizzare ulteriormente le condotte del funzionario pubblico che violassero “oggettivamente” i principi di imparzialità e trasparenza della pubblica amministrazione. E non di cancellare una norma che avrà un’unica conseguenza: far venire meno da parte del pubblico ufficiale l’obbligo di astenersi da decisioni che lo vedano oggettivamente in conflitto di interesse. Liberi tutti, dunque. E buona notte al conflitto di interesse. Come vuole una sedicente vulgata liberale (che con i principi liberali nulla ha a che fare) secondo la quale giudice del conflitto di interesse non è un soggetto terzo, ma l’autonomo self restraint di chi versa in quella condizione. O, in ultima istanza, il corpo elettorale chiamato a confermare o togliere la fiducia all’amministratore della cosa pubblica.
Del resto, a tradire le intenzioni della destra al governo, è anche la cifra che ispira l’abrogazione del potere di appello dei pm in caso di assoluzione in primo grado (norma a rischio di illegittimità costituzionale). Oltre alle nuove norme relative al potere di emissione di un provvedimento cautelare. Trasferirlo da un singolo giudice (il gip) a un organo collegiale di tre magistrati giudicanti (con l’obbligo di interrogare l’indagato prima che la misura venga emessa), significa di fatto grippare definitivamente la già malmessa macchina giudiziaria. Perché se tre giudici saranno chiamati a esprimersi sull’arresto e altri tre (il riesame) sull’eventuale ricorso contro quell’arresto, questo significherà che la sola fase delle indagini preliminari consumerà per un singolo indagato e su una singola misura almeno sei magistrati. Che non potranno poi più far parte del collegio giudicante che sarà chiamato a esprimersi nel giudizio di merito. E in un Paese drammaticamente a corto di magistrati questo significherà tempi ancora più lunghi per i processi e loro estinzione anticipata per prescrizione. Che è l’obiettivo che normalmente perseguono gli imputati dei reati contro la pubblica amministrazione.
A completare lo scasso, le norme che allargano il divieto di pubblicazione delle intercettazioni telefoniche su cui sia caduto il segreto di indagine. Un bavaglio al giornalismo ancora libero giustificato da asserite violazioni del segreto di ufficio che protegge le intercettazioni. Violazioni di cui tuttavia non esiste traccia almeno a partire dal 2017, come il Garante della Privacy ha di recente documentato in Parlamento. Un bavaglio figlio di un’idea grottesca del segreto stesso, concepito come strumento di tutela della privacy dei non indagati. E non, quale è, come strumento di tutela dell’integrità dell’indagine.
Già, “Giustizia giusta”, ripetono. Scomodando, con un’impostura lessicale, una parola nobile come “garantismo”.
Mentre è solo un altro giro di benda sugli occhi del Paese e la consacrazione di una giustizia penale di classe.