Celebrati e oggetto di mostre importanti, come quella ora allestita al Palazzo Zabarella di Padova, gli artisti dell’avanguardia fondata da Marinetti finirono per essere sostenitori del regime fascista Un dato storico incontrovertibile che ormai sembra quasi essere sminuito, se non dimenticato
diGregorio Botta
All’improvviso tutti a parlare di Futurismo. «Per me non è solo arte è una religione» proclama Sgarbi visitando una mostra a Torino. E il suo ministro Sangiuliano lancia l’idea di un’esposizione al museo archeologico di Napoli perché, spiega, «nel Futurismo c’è un’idea di modernità che viene dal passato» (qualunque cosa voglia dire… chissà se il movimento che voleva distruggere i musei sarebbe d’accordo). Non è che la Destra al potere stia riscoprendo un’avanguardia dimenticata o rimossa. Al contrario. In realtà Boccioni&co sono stati molto celebrati negli ultimi decenni. Proprio in questo momento ben tre mostre ne espongono le opere: Palazzo Zabarella a Padova, la Fondazione Quarto potere a Torino, mentre proprio Sgarbi ha inaugurato qualche settimana fa un’esposizione di Depero al Riso di Palermo. Se una rimozione c’è stata – un’edulcorazione, un annacquamento – essa riguarda invece le caratteristiche più indigeste,il carattere eversivo, e in ultimo il vestito politico che alla fine il movimento indossò: unica avanguardia europea finita a far da ancella ad una dittatura. Come a voler dimenticare il lato oscuro che ne accompagnò la nascita.
Prendiamo ad esempio la mostra di Padova (Futurismo 1910- 1915, La nascita dell’avanguardia a cura di Fabio Benzi, Francesco Leone, Fernando Mazzocca, fino al 26 febbraio), accompagnata da un magnifico catalogo con saggi approfonditi: quello di Benzi, per estensione e erudizione, potrebbe dar vita ad un libro a sé. Eppure quando si parla dello sciagurato slogan «La guerra sola igiene del mondo» nei cartelli di sala e sullo stesso catalogo si tende a minimizzarne la forza e la natura: «Se si analizza più a fondo il contesto culturale… si può comprendere come il proclama marinettiano avesse un chiaro risvolto estetico-simbolico. Per i futuristi infatti l’impeto bellico era elevato a metafora della creazione artistica». Probabile: ma è difficile ridurre a semplice metafora i reportage di Marinetti sui massacri libici, l’esaltazione per la potenza meccanica del cannone, i bum bum e i tumb tumb e le mitragliatrici e gli aerei e le fucilazioni cantate all’alba della Grande Guerra nelle opere di Marinetti, Carrà, Severini, Balla, Sironi – alcune delle quali sono esposte a Padova. Certo, era lo spirito dei tempi: i futuristi non furono i soli ad ammalarsi della febbre interventista, ma si spinsero fino a creare un’estetica della guerra, ad esaltarla poeticamente e visivamente, inneggiando alla bellezza militare e forgiandone parole d’ordine. La volevano rendere desiderabile. Contribuendo così a rafforzare – in quel ribollente crogiolo culturale che era l’Italia di inizio secolo – il terreno su cui poi i fascistiavrebbero trovato facile presa per la loro propaganda. Se fu “metafora” la pagarono a caro prezzo. Molti futuristi si arruolarono e due dei più grandi, Boccioni e Sant’Elia, vi lasciarono la vita.
Stanchi dell’Accademia, affamati di innovazione, i giovani artisti più promettenti avevano seguito con entusiasmo la furia iconoclasta delManifesto lanciato da Marinetti nel 1909. La mostra di Padova ripercorre le prime tappe attraverso 121 opere di 38 autori. Si parte dalle radici simboliste e divisioniste, per passare poi allo spiritualismo cui i curatori hanno dato particolare attenzione: le correnti esoteriche influenzarono molte avanguardie europee, egli italiani non ne furono immuni. D’altronde ilManifesto della pittura futurista (1911) recita: «Chi può credere ancora all’opacità dei corpi, mentre la nostra acuita e moltiplicata sensibilità ci fa intuire le oscure manifestazioni dei fenomeni medianici? ». Ed ecco un disegno di Romolo Romani che ritrae il suo “doppio etereo” inseguendo le teorie di Madame Blavatsky, ecco il quadro Etere dell’altrimenti e tristemente famoso Julius Evola, ecco le opere di Russolo, musicista appassionato dell’occulto, ed ecco naturalmente Balla, frequentatore di circoli teosofici. Gli Stati d’animo di Boccioni – qui ne è esposto uno – nascono da questo clima che cercava di dar forma alla psiche. Gli altri capitoli dell’esposizione riguardano il Dinamismo, la Simultaneità, il Polimateriamo, il Paroliberismo, in un veloce e sommario viaggio a volo d’uccello sui vari aspetti dei nuovi linguaggi dell’avanguardia, in cui spiccano alcune meraviglie assolute. IlMeriggio. Officine a Porta Romana in cui il giovane Boccioni si misura con la poetica della periferia urbana, o il bellissimo Ciò che mi ha detto il tram,nel quale Carrà fonde con una tavolozza ricchissima e pennellate concitate, umori, movimenti e magia della città. Balla, c’era da aspettarselo, è sovrarappresentato, sue un terzo delle opere: alcune magnifiche (ad esempio Oggi è domani, Compenetrazione
iridescente, del 1913), altre più decorative o desolatamente didascaliche. Ma vanno anche segnalate le tele di alcuni compagni di strada meno celebri: gli intrecci di linee rosse, blu e gialle su fondo bianco di Jules Schmalzigaug hanno una leggerezza e una grazia che raramente si trovano nella pittura futurista. Nella sala dedicata alla scultura – infine – circondato da tanti piccoli pupazzi di Depero domina l’uomo aerodinamico immaginato da Boccioni: design visionario, volute avveniristiche, il passo veloce di quelle Forme uniche della continuità nello spazio, ci porta, ancora oggi, direttamente nel futuro.