Giorgio Gaber Buttare lì qualcosa
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È in gioco l’anima dell’Europa.
L’ennesima maratona negoziale andata in scena ieri in Lussemburgo, dove i ministri dell’Interno si sono incontrati per approvare il “patto sui migranti”, è in realtà soltanto l’ultima di una serie di occasioni perse dalla Commissione e dagli Stati membri per ridefinire sé stessi e il proprio compito storico. Al di là delle alchimie e degli equilibri che ogni vertice continentale porta con sé, con legittime richieste da Paese a Paese, l’aspetto più preoccupante riguarda non solo la portata delle risposte individuate, ma anche la visione di fondo. Che, spiace dirlo, non c’è.
Nessuna novità, purtroppo, dal fronte occidentale: non sul tema della solidarietà continentale e della redistribuzione degli arrivi, non sul rapporto complicato tra Paesi di primo e secondo ingresso, tanto meno sul sistema di garanzie per chi è in fuga da guerre e carestie. La montagna ha partorito il solito topolino: la condivisione dell’impegno sull’accoglienza è stata a tal punto diluita da far prevalere l’aspetto economico della compensazione (i 20mila euro da pagare per persona non ospitata) su quello umanitario; l’obbligatorietà a farsi carico degli arrivi di altri Paesi è prontamente sfumata, messa in crisi anche dal pressing del
cosiddetto “asse di Visegrad”; il richiamo continuo al controllo delle frontiere esterne ha largamente prevalso su percorsi di protezione e integrazione, demandati ad altri interventi.
Si può dire, sommessamente? Non era questa l’Europa che sognavamo. E neppure quella che sognavano, probabilmente, i padri fondatori.
Trent’anni fa il cardinale Carlo Maria Martini disse con chiarezza: « L’immigrazione è davvero un’occasione storica per il futuro dell’Europa.
Occasione di bene o di male, a seconda di come la governeremo». Quando nel settembre 2015 venne ritrovato sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, il cadavere del piccolo Alan Kurdi, per qualche settimana si ebbe come l’impressione di un moto collettivo di ribellione, contro l’ineluttabilità delle tragedie in mare. Due giorni fa, l’immagine di una bimba con una tutina rosa che galleggiava al largo della Tunisia è stata accolta dall’indifferenza generale.
L’inerzia con cui si sta procedendo verso l’idea della “Fortezza Europa”, forse anche per compiacere i venti di destra che soffiano in direzione della prossima tornata europea, tradisce lo spirito stesso della costruzione comunitaria, con il paradosso ulteriore di un Europarlamento, quello attualmente in carica, che ha saputo spingersi in materia migratoria su posizioni più avanzate
rispetto alla Commissione e non è stato neppure ascoltato. Mentre crescono i muri ai confini degli Stati, l’Unione europea non riesce a passare, come chiedeva il compianto presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, «dalla gestione della migrazione al governo della migrazione, con un approccio positivo e non negativo».
Di quale Europa stiamo parlando, se quella attuale tende ancora ad affrontare l’impennata degli arrivi (di cui il nostro Paese è primo destinatario) spostando la risoluzione dei suoi problemi all’esterno, delegando di volta in volta ieri alla Turchia, un domani forse alla Tunisia il controllo dell’emergenza umanitaria?
L’Italia conosce bene, purtroppo, le stragi del Mediterraneo: Lampedusa è stato crocevia di drammi a ripetizione, Cutro è una ferita aperta sulla cui responsabilità non si è fatta ancora chiarezza. Portiamo addosso le cicatrici di tante vicende tragiche ed è giusto chiedere a Bruxelles, così come a Parigi, Berlino e alle altre capitali del Vecchio continente, di condividere con noi non solo il dolore del giorno dopo, ma anche l’impegno a muoversi prima, con strategia e rigore. Il tempo per cambiare rotta, però, è quasi scaduto.