Alberto Simoni
Keir Starmer, laburista, premier in pectore secondo i sondaggi, gli umori e le sensazioni che si respirano ovunque nel Paese, è categorico: «Con me il Regno Unito non tornerà nella Ue, nell’unione doganale e nel commercio comune», ha detto scambiando qualche battuta con i giornalisti al seguito nell’ultimo giorno prima delle elezioni. Urne aperte stamane per 50 milioni di britannici, cittadini del Commonwealth residenti nel Regno Unito e 3 milioni di inglesi che vivono all’estero. Risultati alle 22 (le 23 in Italia).
La Brexit è incardinata nello spirito britannico, al netto di rilevazioni che talvolta sottolineano piccole oscillazioni verso il “rimorso” per il referendum del 2016. Il capo dei laburisti dal 2020 è realista e pragmatico. La sua linea è sempre stata quella di «gestire al meglio la Brexit» senza nostalgie per l’adesione del Regno Unito al Club europeo. E questa posizione è forse l’unica che tiene legato ancora il vecchio e il nuovo mondo laburista. Dove il vecchio è incarnato dai residui del «corbinismo» perché il padre, al secolo Jeremy Corbyn, segretario e sconfitto in due elezioni, 2017 e 2019, rovinosa quest’ultima, eccellente performance la prima, è stato liquidato dal nuovo corso. Cacciato, si è trovato a correre per tenere il suo seggio a North Islington con la casacca di indipendente.
I volontari che fanno il porta a porta si ritrovano al quartier generale a due passi dalla moschea di Finsbury Park, un tempo sede di ritrovo di estremisti islamici e oggi monitorata senza sosta. Un ragazzo del team Corbyn ci spiega che «la corsa è serrata», i sondaggi indipendenti vedono invece spacciato Jeremy. «La macchina laburista – spiega Bren, un volontario della campagna – è piena di soldi e ha investito per eliminarlo dalla scena politica». La mobilitazione per il vecchio socialista, accusato di antisemitismo, amico di Hezbollah, sostenitore della nazionalizzazione di ferrovie e molti altri servizi, è tanta. «Oltre un migliaio di persone sono venute qui e ci danno una mano», spiega un ragazzo dell’ufficio stampa.
Basta parlare con Bren e con altri – ci sono ventenni e sessantenni fra i volontari del porta a porta – per capire che il Labour di Starmer è lontanissimo dai loro gusti. «È di destra – dice Bren – fa politiche sociali conservatrici». E poi c’è «il genocidio a Gaza che Starmer ignora» e «la privatizzazione del servizio sanitario che ha arricchito le compagnie e fatto aumentare i prezzi».
L’ufficio di Starmer non è lontano dalle donne velate che fanno la spesa negli shop vicino alla moschea. Da Finsbury si va alla vivacità alternativa di Camden Town. La riscossa laburista parte da qui e dalle ville di Kentish Town, dove vive il leader laburista. Avvocato dei diritti umani, procuratore della Corona per sei anni, nominato sir dalla Regina Elisabetta, famiglia di estrazione operaia e laurea a Oxford. Con una passione, il calcio, che gli consente di connettersi al mood britannico. Tifa Arsenal. Un suo elettore (ma sponda Tottenham) che incontriamo a due passi dal mercatino di Camden ironizza: «Keir è meglio dell’Arsenal, i gunners non vincono da venti anni, lui porterà il Labour al potere dopo appena 14».
Una traversata del deserto durante la quale i laburisti hanno sofferto e patito di tutto. Nel maggio del 2010 Gordon Brown lasciava il 10 di Downing Street. Ultimo premier laburista e ultima folata della stagione del New Labour inaugurata nel 1997. In settembre due fratelli, Ed e David Miliband si affrontarono per la segreteria del partito. Prevalse Ed, sostenuto dai sindacati e David, ministro degli Esteri, prediletto di Blair, lasciò politica e Paese. Ed perse nel 2015 contro Cameron e cominciò la stagione massimalista di Corbyn che aveva fra i record quello di aver votato innumerevoli volte contro la linea del partito. Eppure, ne prese il controllo. Solo la disfatta del 2019 con Boris Johnson che conquistò i bastioni operai del Nord spinse il Partito a sbarazzarsi del segretario. «Starmer è spinto da Mandelson e Blair», spiega un analista che da decenni bazzica Whitehall. Sir Keir, sposato, 61 anni, due figli, promette: «Ho organizzato il partito, posso farlo con il Paese».
Il piano è moderato, ben altro dal radicalismo di Corbyn. La City lo attende senza angosce, il tabloid Sun ha addirittura dato l’endorsement, e il Times, anch’esso proprietà di Murdoch, non ha appoggiato il premier Sunak limitandosi con un editoriale a dire che ha fatto il possibile. Insomma, è «tempo di cambiare» il timoniere, tutti d’accordo. O rassegnati. Il premier Rishi Sunak cerca voti last minute per impedire a Starmer di avere la maggioranza assoluta. Ma due suoi ministri ieri mattina in radio tratteggiavano scenari foschi: vinceranno a valanga. Per l’Economist i laburisti avranno 465 seggi su 632, ben oltre i numeri di Blair; e You Gov, nell’ultimo rilevamento dice che il vantaggio del Labour sarà di 232 seggi, il più ampio della storia moderna. Ma Starmer non è Corbyn e non spaventa nessuno.