
Four Tops – Reach Out (I’ll Be There)
19 Giugno 2025
Trump rivendica l’imprevedibilità. Ha approvato in privato i piani di attacco all’Iran, ma ha trattenuto l’ordine finale
19 Giugno 2025Quando lo spazio pubblico diventa un campo di censura
di Pierluigi Piccini
In Italia, come in molti contesti europei attraversati da una lunga stratificazione storica e simbolica, basta poco perché un’opera d’arte contemporanea venga percepita come un corpo estraneo. Non servono provocazioni eclatanti, né attacchi diretti ai simboli del passato: è sufficiente l’ambiguità, la mancanza di una lettura immediata, o il semplice rifiuto del decoro. È quanto accaduto di recente a Siena, dove la rassegna Assistere il buio — ideata e curata da Serena Fineschi — ha riportato l’arte contemporanea nello spazio pubblico, distribuendo opere luminose e installazioni in punti simbolici della città.
Tra gli artisti invitati anche Flavio Favelli, con l’opera intitolata “Chi dice Palio dice Siena, Chi dice Panforte dice…”, che consiste in una scritta ispirata all’estetica pubblicitaria, installata su una lanterna urbana. Un intervento in apparenza semplice, ma denso di ambiguità: un assemblaggio di parole familiari e slogan pubblicitari trasportati in un contesto estraneo, che ne sospende la funzione originaria per attivare una dimensione poetica, affettiva, perturbante. Un linguaggio che evocava memoria e perdita, affetto e vuoto, con quella potenza propria dei segni quando vengono spostati di senso.
Ma proprio questa ambiguità è risultata inaccettabile per le istituzioni. L’opera è stata dichiarata “incongrua” con il contesto urbano. La Soprintendenza ne ha imposto lo spostamento su suolo privato, temendo un uso improprio di un marchio commerciale. Il gesto è stato silenziosamente censurato. Ma dietro parole come “incongruenza” o “inopportunità” si nasconde spesso qualcosa di più profondo: la paura del disordine simbolico.
In molti contesti urbani, l’arte è la benvenuta solo se decora, se consola, se conferma l’identità. Si accettano con entusiasmo installazioni decorative, come Path to the Sky di Jacob Hashimoto, che fluttua leggera nei cortili storici, pronta a essere fotografata, condivisa, digerita. Arte “da cartolina”, perfetta per una città-vetrina. Ma l’arte vera, quella che sposta il punto di vista, viene spesso rigettata. Non per quello che mostra, ma per ciò che disordina.
Favelli, nel dialogo pubblico con la curatrice Serena Fineschi, ha rivendicato il carattere dissonante del proprio gesto: non un messaggio, ma uno scarto di senso. Non una comunicazione, ma una frizione visiva. Ed è proprio questa capacità dell’arte di creare attrito che, oggi, viene percepita come minaccia. Troppo difficile da spiegare. Troppo rischiosa. Troppo libera.
Il problema non è solo culturale. È profondamente politico. Chi decide cosa può essere detto, o mostrato, nello spazio pubblico? Su quali criteri si stabilisce se un’opera è “adeguata”? Quale idea di cittadino si presuppone dietro questi atti di selezione e rifiuto? Un osservatore fragile da proteggere? Un consumatore estetico da compiacere?
Come scrive Jacques Rancière, l’arte non è politica perché trasmette messaggi, ma perché ridefinisce il visibile, disorienta la percezione comune, apre altri orizzonti del sensibile. Proprio per questo, è spesso espulsa dagli spazi urbani dove prevale la logica del consenso, della leggibilità, dell’impatto immediato.
I casi sono tanti: le opere di Blu cancellate a Bologna, la scultura L.O.V.E. di Cattelan inizialmente rifiutata a Milano, il cervo di Mario Merz a San Casciano, da simbolo disturbante a simbolo identitario. In ognuno di questi episodi, il problema non era l’opera, ma il suo effetto iniziale di spaesamento (Heidegger). Il fatto che non si capisse subito. Che non servisse subito. Che non piacesse subito.
L’arte, per essere tale, non deve piacere a tutti. Deve poter esistere anche quando disturba, anche quando parla una lingua diversa, anche quando non serve. Come ricordava Theodor Adorno, l’arte autentica è sempre negazione: un modo per dire “non va bene così”, per mostrare ciò che è rimosso, ciò che non si vuole vedere. E proprio in questo risiede la sua forza.
Il caso senese ci costringe a chiederci: che idea di città stiamo costruendo? Una città-museo, dove ogni gesto nuovo deve chiedere il permesso? O una città viva, che accetta il dubbio, la critica, l’inatteso?
Non è una questione di gusto. È una questione di democrazia. Il diritto all’arte è parte integrante del diritto al dissenso. Non è un lusso per pochi, né un ornamento facoltativo. È una forma di resistenza simbolica contro l’omologazione e la banalità. E come tale, va difeso.
Non solo a Siena. Ovunque.