Carolyn Christov-Bakargiev svela in anteprima la grande mostra alla Bourse de Commerce di Parigi dedicata al movimento italiano più internazionale
di
Dario Pappalardo
Rispetto agli altri, gli italiani hanno un’arte in più: pittura, scultura, architettura e Arte Povera. A Parigi lo sanno bene, visto che l’albero di Giuseppe Penone svetta già davanti alla Bourse de Commerce, che dal 9 ottobre al 20 gennaio 2025 ospita la grande mostra dedicata al movimento battezzato nel 1967 da Germano Celant, che smontò le categorie del contemporaneo, portando i visitatori oltre lo specchio: dalla stessa parte degli artisti. Carolyn Christov-Bakargiev firma l’allestimento monstre con più di 250 opere, 50 provenienti dalla collezione di François Pinault, il padrone di casa, e il resto dal Castello di Rivoli, dalla Fondazione CRT di Torino e da prestiti internazionali. «Una sfida per loro e per me – dice la curatrice tra un vaso etrusco appena consegnato dal corriere e un’installazione da mettere a punto –. L’Arte Povera è una grande famiglia, uno state of mind,un’energia che si riattiva, che non si conclude certo all’inizio degli anni Settanta».
L’Arte Povera e il suo contesto sembrano molto distanti dall’era della smaterializzazione e dell’Intelligenza Artificiale.
«E invece la nostra epoca è simile a quella in cui nacque l’Arte Povera, che fu una reazione alla società dei consumi e dello spettacolo. Oggi ritorna la competizione per il progresso con la corsa sfrenata all’accaparramento dell’Intelligenza Artificiale. Ma, come allora, c’è anche un estremo bisogno di corpo.
Negli anni Sessanta, l’Arte Povera metteva insieme materiale e immateriale, riducendo tutto all’essenziale. Jerzy Grotowski, nel teatro, aveva eliminato il superfluo: luci artificiali, scenografie, persino l’autore, concentrandosi solo sul corpo dell’attore. Nel ’62 Michelangelo Pistoletto esponeva i suoi primi specchi; Giulio Paolini quei pezzi di compensato che erano come delle dime per quadri che dovevano ancora arrivare… questo lavoro convergerà poi nella mostra di Germano Celant, nel settembre del 1967 a Genova».
I poveristi non erano “apocalittici”.
«Assolutamente no. E la mostra di Parigi non sarà anti-tecnologica.
Sarebbe un’idiozia. L’Arte Povera non invitava a tornare alla terra e andare a zappare come hippie.
Mario Merz era affascinato dal neon, dalla novità di piegare la luce elettrica; Giovanni Anselmo dai nuovi proiettori di diapositive; Jannis Kounellis usava il fuoco, la “tecnologia” più anziana. È un’arte come tekne la loro, che porta alla valorizzazione di un esserci dionisiaco: è un pensare con i materiali».
Lei definisce l’Arte Povera come “state of mind”, come stato d’animo. Significa che non è un movimento concluso?
«L’Arte Povera è la fisicizzazione di un atteggiamento. Il curatore Harald Szeemann intuiva questo concetto in una delle mostre più importanti di quegli anni: When Attitudes Become Form a Berna, nel 1969. L’essenza dell’Arte Povera, come mi spiegavano gli artisti stessi quando ero molto giovane, è che l’opera d’arte deve essere reale, in continua metamorfosi, in un costante campo energetico. Per percepire questa realtà è necessario sentire la sua forza magnetica.
L’opera, insomma, deve essere viva.
Lo specchio di Pistoletto “vive”, se rifrange la luce. Le lettere di Paolininon esistono, finché non c’è un pubblico che compone le parole, provocando un momento epifanico in cui ci si rende conto di essere qui e ora in uno spazio, viventi. È l’esatto opposto di quello che accade quando uno è inerte dentro il proprio Instagram. Lo state of minddell’Arte Povera è vedere il mondo come un’infinità di movimenti e realizzare un’opera d’arte che li attivi. Sono questi artisti a inventare l’Installation Art. Trasformarono la galleria o il museo in una sorta di scena teatrale percorsa dagli spettatori, che non erano più tenuti fuori. Le mostre di Arte Povera, come ad Amalfi nel 1968, non sono quadri messi lì, ma creano campi energetici».
A proposito di spazio, come sarà utilizzato quello della Bourse de Commerce di Parigi?
«Ho raddoppiato la facciata. Nella piazza i visitatori vedranno l’albero di Penone della collezione Pinault.
Ma poi dovranno percorrere tutto l’esterno dell’edificio perché sul retro, solitamente non messo in evidenza, ci saranno i numeri di Mario Merz. All’interno, il cuore del museo è la Rotonda, che per la prima volta si apre a più artisti contemporaneamente. DalLiechtenstein arriva la prima struttura ghiacciante di Pier Paolo Calzolari. Ci sarà la prima Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto. Linee di fuga ideali portano poi verso le 13 sale personali, ognuna dedicata a un artista: sono tutte divise, tranne quella di Mario e Marisa Merz dove ho tolto il muro. Loro mi avrebbero inviato strali dal cielo se non l’avessi fatto. Dal piano –1 si parte da Gilberto Zorio, che è Efesto, il Vulcano della situazione, con i suoi archi voltaici e ilConfine incandescente. Poi si sale fino all’ultimo piano con l’angelo di Paolini, che pende dal soffitto. Sarà il protettore di tutta la mostra. Il 5 per cento di presenze è costituito da nomi di oggi di varie generazioni che hanno un legame reale con l’Arte Povera: da David Hammons a Pierre Huyghe e Agnieszka Kurant».
L’Arte Povera con la Transavanguardia è l’ultima tendenza italiana che incide sulla scena internazionale. Perché poi non è più accaduto?
«Perché nasceva in un momento di grande tensione politica e sociale e dalle macerie della guerra. Dalla distruzione è emersa anche l’arte. E poi c’era il miracolo italiano, un mercato in espansione, nuovicollezionisti. Condizioni che non si sono più create».
Quanto è stata influenzata da Germano Celant, il “padre” dell’Arte Povera scomparso nel 2020?
«Se dovessi dedicare la mostra a qualcuno, la dedicherei a Germano. Ma eravamo diversi, non sono mai stata una sua allieva. Ho imparato molto dagli artisti.
Quando lavoro alle mostre, penso quasi a una mega installazione dove le questioni sensitive e poetiche sono molto importanti.
Lui aveva un approccio più razionale, usava sempre la parola “oggettivo” e batteva la mano sul tavolo. La sua generazione ha cambiato il mestiere di curatore.
Non c’era soltanto lui, però, ma anche Jean-Christophe Ammann, Achille Bonito Oliva, Szeemann ovviamente, e critici come Tommaso Trini e Carla Lonzi».
L’Arte Povera si può rieseguire come una musica?
«C’è il curatore che mette tutto insieme come deve fare un direttore d’orchestra. Un igloo si può installare in tanti modi, dipende dalla sensibilità. Adesso sto facendo le prove».