La Bce ha deciso di alzare di altri 75 punti il tasso guida (l’«architrave» di tutti gli altri tassi), incurante delle nubi che si stanno addensando sull’Europa. È il maggior rialzo dalla nascita dell’euro, che peraltro scende di nuovo sotto la parità col dollaro (importazioni di materie prime più care). Meno credito, meno investimenti e consumi, tassi sui mutui più alti, aumento del costo di rifinanziamento degli Stati. Con ironia, potremmo parlare di contropartita per un surriscaldamento dell’economia che non c’è.

La mossa, già battezzata come «storica», arriva dopo lo stop «a tempo indefinito» del gasdotto North Stream1, i cui effetti sul Pil europeo sono del resto prevedibili (per la Bce solo lo scenario «più negativo»). Standard & Poor’s, nel suo ultimo report dedicato alle utilities europee, ha stimato che in Germana le aziende manifatturiere potrebbero essere costrette a tagliare del 25% la produzione. Di «150 miliardi di danni» per le imprese ha invece parlato il Kiel Institute for the World Economy (IfW) in un rapporto pubblicato la scorsa settimana. Guai seri, se si tiene conto del livello di integrazione della manifattura europea. E molti osservatori già evocano «l’errore di Trichet», il capo della Bce che nel 2011 alzò i tassi per due volte consecutive nel momento in cui l’economia dell’eurozona iniziava a contrarsi, con effetti pro-ciclici per i Paesi della periferia.

Bisogna chiedersi, ad ogni modo, se per un’inflazione spinta anzitutto dai costi dell’energia, la politica monetaria restrittiva sia la medicina adatta. È la stessa Bce, d’altronde, che parla di «rapida riapertura delle attività economiche, rincaro dei beni energetici ed “effetto base” (il rialzo appare tanto più marcato perché confrontato con il livello troppo basso del periodo preso a riferimento)», quali cause principali di quest’ultimi. Un quadro diverso da quello che fa da sfondo alle scelte della Fed negli Usa, dove gli occhi sono puntati essenzialmente sulla crescita dei consumi e sulla forza del mercato del lavoro. Lo dimostra anche il divario tra i prezzi alla produzione (quello delle vendite all’ingrosso) e i prezzi al consumo che si è venuto a determinare nella zona euro. Su base annua, i primi sono aumentati del 37,2%, mentre i secondi del 8,9%. Un differenziale di 28 punti che nei prossimi mesi, per una buona parte, sarà scaricato inevitabilmente sui consumatori finali.

Nello statuto del Sistema europeo delle banche centrali, all’articolo 2, si legge che «l’obiettivo principale del Sebc è il mantenimento della stabilità dei prezzi». Il che lascerebbe intendere che la banca centrale abbia a disposizione ogni mezzo per tenere a bada l’inflazione (negarlo sarebbe un’ammissione di impotenza). Invero, sarebbe così se l’inflazione fosse solo un fenomeno monetario. Una tesi che ci perseguita da almeno cinquecento anni. Molto prima di Milton Friedman, già nel XVI secolo, Jean Bodin asseriva che la causa dell’aumento dei prezzi era sempre «l’abbondanza di ciò che governa la valutazione e il prezzo delle cose». Un abbozzo di «teoria quantitativa della moneta».

Ma la storia, su questo punto, ha dato torto ai monetaristi. Non tutte le inflazioni sono uguali. «La politica dei tassi alti serve per un’inflazione da domanda, non quando questa è dal lato dell’offerta», aveva ammonito solo pochi giorni fa il premio Nobel Joseph Stiglitz a Cernobbio. Come a dire che di fronte ad un’inflazione da costi, come quella europea, un repentino rialzo dei tassi può solo fare danni all’economia.

Più o meno quello che ha lasciato intendere due settimane fa il membro italiano del Comitato esecutivo della Bce Fabio Panetta, una delle «colombe» del board di Francoforte: «Aggiustamenti della politica monetaria sono possibili, ma l’evoluzione più recente dell’economia dovrebbe indurci a esercitare una delle caratteristiche principali dei banchieri centrali, ovvero la prudenza». Insomma, sarebbe necessaria una politica di «controllo dei prezzi», più che un intervento volto a deprimere la domanda, peraltro già insufficiente. A cominciare dai prezzi dell’energia. Il che, nell’immediato, significherebbe bloccare la speculazione e fissare alcuni tetti per legge.