Sei musei in uno ridisegnano la civiltà
23 Ottobre 2022Il cielo sopra la Scrofa
23 Ottobre 2022Il Mast di Bologna racconta l’evoluzione della fotografia come tecnologia di informazione e documentazione
di Michele Smargiassi
Nella serra olandese, un’orchidea cresce sotto lo sguardo esperto del floricultore. A intervalli regolari un occhio la osserva, registra la sua crescita, regola luce acqua e nutrimento, e alla fine ne valuta la bellezza e ne fissa il prezzo di vendita. Ma quell’occhio non è umano. Appartiene a un robot vedente e artificialmente intelligente. Un robot che vede grazie a una tecnologia ottica inventata quasi duecento anni fa, e rimasta sostanzialmente la stessa al di là dell’evoluzione tecnologica. Dopo tutto, chiamiamo ancora fotografia quella tecnologia. Ma forse solo oggi che la retina surrogata della fotografia si è alleata con i cuori di silicio dei processori abbiamo capito che in questi due secoli la sua vocazione, la sua essenza, il suo compito sono sempre stati quelli che nel 1839 il fisico François Arago le assegnò, presentandola al mondo dalla cattedra dell’Accademia delle scienze di Parigi: raccogliere dati sul mondo reale, selezionarli, renderli maneggevoli e condivisibili, utilizzarli, conservarli.
La fotografia, molto più che un oggetto estetico da contemplare, è una tecnologia dell’informazione: è questa l’affermazione semplice e limpida che una mostra insolita intende dimostrare riscrivendo radicalmente la storia di un medium troppo frettolosamente assegnato all’orbita romantico- commerciale dell’arte. È bastato riscoprire la centralità di quegli usi che con snobismo gli storici della fotografia hanno sempre relegato nel capitolo “applicazioni pratiche”. Ma Image Capital in realtà è qualcosa di più: una sveglia, se non addirittura un allarme per la condizione dello sprovveduto homo videns, circondato da immagini che non sa decifrare, oggetto a sua volta di immagini che altri occhi invece sanno sfruttare a sua insaputa. Nella sede giusta, il Mast di Bologna, museo e laboratorio della storia della fotografia industriale, un artista e fotografo italiano, Armin Linke, e una storica tedesca della fotografia, Estelle Blaschke, hanno architettato una vera e propria officina di smontaggio in pubblico di uno dei linguaggi più potenti ed efficienti che la cultura moderna abbia inventato. Non si era sbagliato Lászlo Moholy- Nagy, mente del Bauhaus: «Non colui che ignora l’alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia sarà l’analfabeta del futuro » . Siamo tutti analfabeti oggi, e pure presuntuosi, perché invece pensiamo di sapere guardare e capire le fotografie, e non abbiamo ancora capito che sono le fotografie a guardare e a capire (e carpire) noi. Ce la prendiamo con le immagini- spazzatura ( ma perché, poi, spazzatura?), con i selfie, senza capire che il problema non sta nella loro precaria estetica, ma nella funzione operativa a cui vengono nascostamente indirizzate: quella di fornire agli sguardi robotizzati una immensa massa di dati « ricoperti da una superficie visuale» su comportamenti, consumi, abitudini di massa, che un sondaggista agli albori del marketing non avrebbe saputo sognare in un delirio di onnipotenza. Scrive nell’introduzione alla mostra il curatore Francesco Zanot: «Le grandi masse di immagini che alimentano questo sistema hanno acquisito un valore elevatissimo, conferendo a coloro che le possiedono, e sanno come gestirle ed elaborarle, poteri ugualmente sterminati».
Le immagini sono un capitale, appunto, forse il più prezioso nell’epoca della presunta smaterializzazione del lavoro e delle merci. Servizievoli, spontaneamente prodotte e offerte, le nuove fotografie della condivisione planetaria si prestano ad una colossale appropriazione di dati privati. Chi attribuisce questo vortice panottico alla rivoluzione digitale sbaglia, eImage Capital lo smentisce con una selezione sorprendente di precursori analogici apparsi nel corso del Novecento: schede perforate che incorporavano immagini, sistemi didata retrieval affidati alle vecchie care fotografie su carta, per non parlare della lunga storia del microfilm.
Sviluppo di una performance al Centre Pompidou, prodotta in collaborazione con il Museum Folkwang di Essen, Image Capital è costruita come un montaggio senza gerarchie di testi, oggetti, immagini, assieme a interviste, video, pubblicazioni.
Image Capital è un viaggio in sei capitoli che descrivono il percorso logico della fotografia come tecnologia avanzata dell’informazione. Attingendo alla proliferazione di immagini, anche private, si formano enormi archivi (Memory) di dati visuali e metadati nascosti, un patrimonio conservato in banche dati (Protection) niente affatto virtuali dalle quali, attraverso complessi sistemi di indicizzazione (Access), l’ispezione di occhi robotizzati è in grado di ricavare (Mining) informazioni dettagliate sui nostri comportamenti. Mentre altri occhi continuano a ispezionare il mondo reale, spiando i nostri movimenti, riconoscendo i nostri volti, elaborando ipotesi di nuove immagini (Imaging) e facendo di tutto questo una formidabile fabbrica di valore (Currency). Dopo tutto è questo, di strumento efficiente, il destino che Charles Baudelaire aveva suggerito, o meglio intimato alla fotografia, “ figlia dell’industria”, ossia di tenersi lontana dai territori della poesia e di limitarsi al suo vero compito di “ servitrice delle scienze e delle arti”. Non aveva però sospettato, il poeta, che quell’“ umilissima serva” avrebbe un giorno imparato a fare da sola, fino, forse, a diventare padrona.