La propaganda di corte
Sarà bene che la vicenda relativa alla censura nei confronti di Antonio Scurati non venga dimenticata troppo presto. Si tratta, in tutta evidenza, di qualcosa di molto serio e, a dimostrarlo, sono innanzitutto le strategie di dissimulazione adottate dalla destra politico-mediatica. Non è la “dissimulazione onesta” di cui scriveva Torquato Accetto a metà del XVII secolo, bensì quella infingarda della propaganda di corte e di cortile. Ed è proprio la presidente del Consiglio a indirizzare tale strategia o, se si preferisce, a tracciare il solco.
La prima mossa consiste nello sfregio alla figura dell’avversario, Scurati in questo caso, riducendo la controversia a una questione di soldi: è il contenzioso sul compenso che avrebbe determinato la cancellazione del monologo dal programma televisivo. La cosa non meriterebbe attenzione se non per il tratto di meschinità che rivela: forse che noi si giudica l’operato dell’attuale governo calcolando quanto ci costa un’ora di attività della premier sulla base del suo stipendio di parlamentare e di presidente del Consiglio?
La seconda mossa dell’attività censoria punta sulla de-politicizzazione del caso: tutto si dovrebbe alla goffaggine e alla insipienza di un paio di funzionari della Rai che invece di “sopire, troncare”, avrebbero fatto deflagrare un episodio sostanzialmente irrilevante. Chiariamo. Non c’è dubbio che, in una democrazia, il sistema della censura e della interdizione, della proibizione e del veto difficilmente funziona come una macchina perfetta.
Più di frequente — ma ciò non è meno insidioso — il controllo si esercita in maniera approssimativa e impacciata, legnosa e grossolana, affidata com’è a esecutori afflitti da eccesso di zelo e da servitù volontaria. E tuttavia, nella vicenda in questione è il merito che va innanzitutto considerato. Le parole di Antonio Scurati rappresentano il rovesciamento più radicale di un processo di “neutralizzazione” del fascismo, in corso da decenni. In sintesi si può dire che una buona parte della destra italiana e del senso comune che la esprime ha ridotto il rifiuto del ventennio fascista alla critica verso il suo ultimo settennato: dalla proclamazione delle leggi razziali del 1938 all’entrata in guerra e alla sconfitta del 1945.
La splendida espressione di Hannah Arendt, «la banalità del male», subisce così il suo ennesimo abuso e una dittatura durata decenni viene trattata come una «parentesi». La definizione è, sì, di Benedetto Croce, ma il filosofo la attribuiva a una «malattia morale», mentre nella sotto cultura della destra italiana risulta poco più che un periodo storico controverso. Una banalizzazione, appunto. Da qui messaggi come: Mussolini ha fatto anche cose buone; il Fascismo ha dato agli italiani le bonifiche e l’Inps… Una simile paccottiglia viene spacciata con dovizia e trova numerosi consensi anche a livello istituzionale (si pensi al presidente del Senato).
Scurati aggredisce questo nodo, indicando nell’assassinio di Giacomo Matteotti una sorta di atto fondativo del regime, mostrandone l’intima natura di sopraffazione e di violenza.
Ma il punto più incandescente del monologo è là dove lo scrittore evidenzia reticenze e contraddizioni di Meloni e del suo giudizio storico e politico sul fascismo. Qui, la reazione dell’apparato mediatico della destra non lascia dubbi: emerge nitidamente un grumo oscuro e un rimosso che rivelano l’indicibile di una mancata elaborazione del rapporto con il passato e con i suoi fantasmi.
Non si spiega altrimenti la riottosità psicologica e politica a dire l’antifascismo e a dirsi antifascisti. L’antifascismo è l’ineffabile che non può essere pronunciato. Non è una mera tattica elettorale, finalizzata a non perdere un solo voto nostalgico. È qualcosa, piuttosto, che richiama l’identità di questa destra e ne rinnova le tentazioni illiberali e autoritarie.
Queste non rappresentano solo un retaggio del passato, ma anche un tratto della contemporaneità, che segnala la possibile involuzione dei sistemi democratici.
Per questo la censura nei confronti di Scurati deve preoccupare, così come non lasciano tranquilli alcuni episodi raccontati da Roberto Saviano e la querela di Giorgia Meloni nei confronti di Luciano Canfora. In gioco c’è né più né meno che la libertà di pensiero e di espressione. In una democrazia matura la libertà delle idee conosce un solo limite ed è quello tracciato dalla giurisprudenza della Cassazione e della Corte Costituzionale: tutte le opinioni sono consentite, anche le più infami, quando e fino a quando non si traducono in istigazione a commettere delitti. Di conseguenza, Canfora può definire Meloni «neonazista nell’anima», così come Meloni può definire «stalinista» Canfora. Si tratta di due offese sanguinose e speculari, dal momento che entrambi i regimi si sono resi responsabili di stragi efferate. Dunque, offese che appartengono alla dimensione estrema del linguaggio politico, ma che lì devono esaurirsi: e nessuno dovrebbe essere chiamato a risponderne sul piano giudiziario.
Quando, poi, a querelare è la presidente del Consiglio si scivola palesemente nell’intimidazione tenuto conto della sproporzione di potere che intercorre tra un capo del governo e un docente universitario. È quanto sfugge alla destra, che non sembra comprendere che la libertà di espressione incontra il suo confine solo quando la parola si fa violenza.
Quando, cioè, le idee presentano il concreto rischio di tradursi in atti capaci di ledere terzi. E quando, ancora, le parole sono azioni: non illeciti di opinione, bensì contenuti istigativi. È questo il senso del principio di materialità delle norme penali, che distingue le democrazie dai regimi, perché non punisce l’idea ma solo la sua manifestazione lesiva. In tutte le altre circostanze quelle idee e quelle parole appartengono alla piena affermazione delle libertà costituzionali. Che sono faticose e, spesso, dolorose, ma che non prevedono deroghe.