L’odio dei poveri di Roberto Ciccarelli, appena pubblicato dalla casa editrice Ponte alle Grazie (pp. 320, euro 18), prende spunto dall’analisi delle ragioni profonde che hanno riattualizzato i sentimenti negativi verso i poveri, se non apertamente violenti, e sviluppa una vera e propria riflessione filosofica sulla povertà della quale si avvertiva molto la mancanza.
Il libro è organizzato grosso modo in tre blocchi. Nel primo l’autore parte da un «lavoro genealogico» relativo alle parole entrate nel lessico corrente, ne smaschera l’uso «opportunistico e cinico» che si nasconde dietro ai tecnicismi e infine ricostruisce in maniera puntuale i momenti attraverso i quali è stata elaborata l’equazione «povero=criminale».

AD ESEMPIO, l’autore spiega come «Prima si crea la fobia contro i “parassiti sociali”, gli “scrocconi” (scrounger phobia); poi si inventa il caso negativo di un personaggio (le welfare queens negli Stati Uniti; i “furbetti”, i “divanisti”, il “metadone di Stato” e altri nomignoli dell’odio adottati in Italia); in seguito si prepara il campo ideologico delle “riforme che riformano le riforme” e hanno l’obiettivo di perseguire le frodi e gli abusi; allo stesso tempo, crescono le campagne mediatiche pervasive attraverso le quali si impone la gestione dei problemi sociali dal punto di vista giustizialista; infine si legittima la morale dell’imprenditore: ce la fa chi si dà da fare, chi non lo fa è responsabile del proprio fallimento».

Per Ciccarelli questa discesa all’inferno del povero è affiancata da campagne di stampa che hanno agito da «definitori secondari» nella rappresentazione «regressiva e reazionaria» dei poveri e dalla complicità del mondo delle «discipline accademiche in cui fanno carriera gli “esperti”» che considerano i poveri alla stregua di «pacchetti di voti» da spostare da un partito all’altro, consumatori incapaci di compiere scelte razionali o lavoratori con scarse capacità di adattamento: in ogni caso comunque soggetti mancanti di qualcosa. Una critica che ha un suo fondamento se si pensa alle ignobili campagne di stampa che hanno sbattuto in prima pagina titoli del tipo «un esercito di accattoni si avventa sul sussidio».

A metà del libro, e questo è il secondo blocco di cui si accennava, Ciccarelli sposta il suo centro di interesse dal governo dei poveri a quello della formazione e dell’occupazione sviluppando una critica serrata e originale alle politiche di Workfare. Affrontando il tema della riattualizzazione della categoria del «povero abile al lavoro» (in quanto tale «non meritevole» di alcun sostegno pubblico e, anzi, oggetto di condanna morale), l’autore ricorda giustamente come la parola «occupabile» con la quale oggi lo si definisce deriva dall’inglese employability (occupabilità), termine che è stato utilizzato dall’Ocse negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso per indicare il tempo di attesa in vista del conseguimento di una possibile occupazione.

L’OCCUPABILITÀ dunque non era considerata come un attributo del soggetto ma semmai della fluidità del mercato del lavoro al cui interno, nota Ciccarelli, il lavoratore doveva «nel vero senso della parola allenarsi». Nel clima di odio verso i poveri che Ciccarelli ha ricostruito in modo puntuale nella prima parte del libro, la nozione di occupabilità diventa lo strumento per valutare l’adattabilità del povero in età da lavoro a una domanda che non offre occasioni reali di uscita dalla sua condizione spingendolo a scambiare «la propria libertà con una disciplina reputata necessaria per raggiungere un lavoro che non c’è». Ma, e qui è un punto importante, in questo scambio il povero non è del tutto un soggetto passivo. Ciccarelli ricorda due esperienze di resistenza molto simili a quelle analizzate da Cloward e Piven nell’ormai classico Poor People’s Movements nell’ambito delle quali i poveri hanno preso la parola smentendo la previsione di Ruth Lister secondo la quale «proud to be poor» («orgogliosi di essere poveri») non è esattamente lo striscione dietro al quale molti marcerebbero.

LA PRIMA riguarda la protesta dei beneficiari di un sussidio di povertà avvenuta a New York nel 1995 contro l’introduzione dell’obbligo di accettare lavori non dignitosi. «Quello americano – scrive Ciccarelli – è stato un caso importante di auto-organizzazione e di sindacalizzazione realizzato non più su base professionale, né di classe, ma sociale. Ciò ha permesso di acquisire nuovi strumenti: la lotta contro la povertà si è saldata con quella contro la stigmatizzazione, mentre la critica al Workfare spietato è stata congiunta con quella per l’affermazione dei diritti fondamentali della persona». L’altra esperienza citata nel libro è la mobilitazione avvenuta in Francia nel 1998 contro la soppressione dei trasferimenti sociali in alcuni dei dipartimenti più svantaggiati sulla base di criteri di valutazione puramente di ordine morale.

Entrambi questi esempi ci conducono direttamente alla domanda che attraversa la terza parte del volume: come contrastare la «tragica rassegnazione» che pervade i nostri tempi? Per rispondere a questa domanda Ciccarelli lancia il cuore oltre l’ostacolo e passa in rassegna diverse proposte innovative ma dotate di praticabilità, molto vicine all’idea di «utopie reali» di Erik Olin Wright, che un tempo si sarebbero dette riformiste e che oggi vengono considerate radicali: dal reddito di base, del quale l’autore è da tempo sostenitore, alla riduzione dell’orario di lavoro; dalla riduzione della polarizzazione tra famiglie povere di lavoro e famiglie ricche di lavoro (e per questo anche povere e ricche in senso più ampio) alla educazione alla solidarietà e alla cura degli altri contro l’ideologia individualista e del merito neo-liberista; fino a giungere ad una politica dei beni comuni e di coordinamento delle politiche sociali con le politiche macroeconomiche.

NESSUNA di queste proposte presa singolarmente sarebbe sufficiente per risolvere il problema della povertà e contenere l’odio verso i poveri che ne è al contempo causa ed effetto, ma nel loro insieme esse contribuiscono a disegnare un programma politico volto a contrastare i processi di immunizzazione, condanna morale e reificazione di cui i poveri sono oggetto e a rafforzare le condizioni affinché possano esercitare il loro diritto di «voce» ad esempio attraverso la sperimentazione di forme inedite di rappresentanza e autorganizzazione.
E con ciò siamo giunti alla conclusione del libro che è un richiamo all’urgenza dell’azione politica e sociale in luogo del ripiegamento individualista e della lotta di fazioni di poveri contro altre fazioni: «La domanda di giustizia sociale e di riconoscimento della umanità dell’altro è collettiva, il problema è storico. Non c’è un’ora X per iniziare a praticare un progetto di vita, non una vita a progetto». I poveri non possono più attendere.