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20 Settembre 2025
Fuga sotto le bombe
20 Settembre 2025L’ETÀ DELL’ODIO
La violenza, la disinformazione e il confine sottile con la libertà di espressione. Come disinnescare l’emozione più distruttiva
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Sono tempi in cui l’odio – nazionalistico, razziale, religioso, di classe, di genere, ad personam – è tornato in grande spolvero. Quest’odio, che ieri ha generato Auschwitz e i gulag, i khmer rossi e il fondamentalismo islamico, si ripresenta oggi nelle forme più faziose – dell’annientamento fisico o morale – del nemico, di un paranoico eccesso di legittima difesa, di vendetta e sopraffazione. Finito un ciclo ultracinquantennale di pace, dopo l’11 settembre 2001 sembrano tornare in occidente gli anni di ferro della prima metà del Novecento. E si riaffaccia una cultura dell’odio, avvertito ormai da molti come una passione positiva. La propaganda della paura trainata dal web manipola, confonde, divide le opinioni pubbliche. “Siete voi i media, adesso”, ha scritto Elon Musk su X dopo la schiacciante vittoria di Donald Trump. Di nuovo presidente, dopo la rivolta dei “patrioti” del 6 gennaio 2021 di Capitol Hill. Il tycoon newyorkese ha promesso una nuova “età dell’oro”, ma sta inaugurando una nuova età dell’odio. Dopo l’assassinio del giovane attivista Charlie Kirk gli Stati Uniti non sono sull’orlo di una guerra civile, ma il “commander in chief” ce la sta mettendo tutta per alimentare un clima di scontro frontale con i suoi oppositori storici, reali e immaginari.
Il risentimento che gli elettori rurali conservatori provano verso quelle che percepiscono come le “power élite” cosmopolite è un dato incontrovertibile. Se, come credono molti repubblicani, l’identità yankee sarà distrutta dall’immigrazione incontrollata, l’obiettivo di escludere i democratici dal potere viene prima di ogni altra preoccupazione e può risolversi addirittura nella trasgressione delle leggi e nell’insubordinazione di piazza. E se, come credono molti democratici, la “società aperta” voluta dai Padri fondatori sarà distrutta dai repubblicani che difendono la superiorità dei bianchi, anche tenere questi ultimi lontani dal potere assume un’importanza “esistenziale”. Ci sono sondaggi secondo cui un terzo dei repubblicani e un decimo dei democratici ritengono che i veri patrioti americani potrebbero dover ricorrere alla violenza per salvare il paese. E, finora, non è chiaro come e chi possa spezzare questa spirale perversa.
Per altro verso, l’invasione dell’Ucraina ha definitivamente rivelato l’efficienza della “disinformatia” del Cremlino, usata per screditare e sfidare (domani anche con le armi?) le democrazie europee. Inoltre, il caos informativo che è seguito al pogrom di Hamas ha scatenato un’ondata di antisemitismo su scala globale che ha poco da invidiare alla Notte dei cristalli nazista.
Il 4 marzo 1923, cioè ben prima del Secondo conflitto mondiale e della pianificazione della Shoah, Sigmund Freud scriveva a Romain Rolland: “Io appartengo, invero, a una razza che nel Medioevo fu resa responsabile di tutte le epidemie e che oggi dovrebbe sopportare la colpa della distruzione dell’impero in Austria e della sconfitta in Germania. Esperienze del genere lasciano disincantati e rendono poco inclini a credere nelle illusioni. Del resto, ho effettivamente impiegato una gran parte del lavoro della mia vita (ho dieci anni più di Lei) a distruggere le illusioni mie e dell’umanità. Ma se quest’unica non si realizzerà almeno approssimativamente, se nel corso dell’evoluzione non impareremo a deviare dai nostri simili i nostri istinti di distruzione, se continueremo a odiarci reciprocamente per piccole diversità e ad ammazzarci per guadagni meschini, se continueremo a utilizzare i grandi progressi nel dominio delle forze della natura per la nostra distruzione reciproca, quale futuro ci attende?” ( Epistolari 1873-1939, Bollati Boringhieri, 1990).
Nella storia del pensiero, diversi filosofi hanno discusso il potere distruttivo dell’odio a cui accenna il fondatore della psicoanalisi: da Aristotele a Cartesio, da Spinoza a Hume, fino a Scheler, Sartre e Jankelévitch. E ognuno di loro, sebbene non siano gli unici ad averne parlato, ha poi privilegiato un aspetto particolare di questo stato d’animo. Ma la sua analisi più profonda e attuale resta probabilmente quella dello Stagirita. In un passo famoso del secondo libro della Retorica (335 a.C. circa), definisce così colui che odia: “L’uomo adirato è addolorato, chi odia invece non lo è. E l’uomo adirato in molte circostanze può provare pietà, l’uomo che odia invece non ne prova alcuna; il primo infatti vuole solo che l’avversario provi a sua volta ciò per cui egli è adirato, il secondo invece vuole che l’avversario non esista” (Laterza, 2021). Nella concezione di Aristotele, insomma,
l’odio è visto come un sentimento gelido e incurabile: tale da porsi perfino oltre lo stesso piacere che si potrebbe provare davanti alla sofferenza della persona odiata. La sua sete di annientare l’altro è inestinguibile.
Il primo quarto di questo secolo è ormai alle nostre spalle, ma rischia di portarci indietro di cento anni. E cioè a non saper riconoscere quel momento in cui – come disse Albert Einstein nel celebre discorso all’Albert Hall di Londra nel 1933 – “il malcontento si trasforma in odio, l’odio in violenza e la violenza in guerra”. In altri termini, possiamo considerare le espressioni d’odio (“hate speech”) sempre e comunque come libertà di espressione, giacché i rimedi per contrastarle sarebbero peggiori del male? Liliana Segre sostiene che “quando si dà il passaporto alla parola, lo si dà anche al fatto”. E’ in questo delicato e decisivo passaggio che le espressioni d’odio possono tramutarsi in incitamento all’aggressione e all’esercizio della prepotenza. Come osserva Antonio Nicita in un volumetto fresco di stampa, una retorica efficace contro le misure di contrasto alle espressioni di odio consiste nel minimizzare i fatti, nel derubricarli a eccezioni presto dimenticate ( Nell’età dell’odio, il Mulino, 2025). In questo senso, suonano come un campanello d’allarme il silenzio o la sottovaluzione dell’isteria antigiudaica che non solo in Italia si è manifestata, negli ultimi due anni, nei cortei filopalestinesi come nelle università e nelle scuole. Silenzio o sottovalutazione che chiamano in causa governi, partiti e, in particolare, intellettualità progressista.
Pensiamo ai social network, il più gigantesco veicolo di infowar esistente. In essi il meccanismo di autoselezione delle notizie si accompagna alle scelte e alle preferenze degli “amici”, generando non solo il “pregiudizio di conferma” ma anche la “polarizzazione di gruppo”. E la polarizzazione, a sua volta, determina la spinta verso le posizioni più estreme rispetto a un punto di vista, qualunque esso sia. Se poi sono le emozioni a guidare la domanda d’informazione, l’offerta può addirittura inventare notizie per coltivarle e ampliare la platea dei suoi consumatori. E’ vero, la satira può giocare con successo contro i fantasmi dell’intolleranza e del fanatismo. Per questo va difesa contro i suoi pelosi detrattori. Tuttavia, c’è un filo sottile che lega il successo della satira alla disinformazione: una battuta sul falso allunaggio non farà certo ridere chi ritiene sul serio che sulla luna non ci siamo mai stati. Nel suo libro, Nicita cita un divertente aneddoto raccontato da Sacha Baron Cohen. Durante la registrazione di una puntata della serie televisiva “Who is America?”, travestitosi da immaginario esperto di antiterrorismo israeliano, avverte il pubblico in sala che la Anti-Defamation League (la Lega anti-diffamazione che si batte contro i crimini razziali negli Usa) stava ordendo un complotto: intendeva inserire ormoni nei pannolini dei neonati per farli diventare transgender. Non solo qualcuno gli diede credito, ma schiacciò senza esitare il bottone di un finto ordigno a distanza per uccidere uno dei manifestanti radunati a San Francisco. Di qui l’amara conclusione di Cohen: “La bufala dei Protocolli dei Savi di Sion equivale alla Anti-Defamation League. E le farneticazioni di un pazzo sembrano credibili quanto le scoperte di un premio Nobel. Abbiamo perso, a quanto pare, la percezione condivisa dei fatti fondamentali su cui poggia la democrazia”.
Secondo Christopher Hitchens, scrittore noto per il suo spirito dissacratorio, la libertà d’espressione include la libertà di odiare. Nel saggio Il piacere dell’odio (1826), William Hazlitt afferma: “L’amore si trasforma, con un po’ di indulgenza, in indifferenza o disgusto; solo l’odio è immortale”. Elogio dell’odio è il titolo di un crudo romanzo di Khaled Khalifa, che narra la barbarie del regime poliziesco e corrotto di Assad vista dagli occhi di una giovane universitaria siriana cui hanno tolto tutto, tranne, appunto, la libertà di odiare (Bompiani, 2011). Quella stessa libertà di odiare rivendicata, in La rabbia e l’orgo- glio, da Oriana Fallaci: “Se ho il diritto di amare chi voglio, ho anche e devo avere anche il diritto di odiare chi voglio […]” (Rizzoli, 2014). Ovviamente, c’è anche la libertà di non odiare: “Ho visto troppo odio per voler odiare anch’io. Noi faremo fronte alla vostra capacità di infliggere sofferenze con la nostra capacità di infliggere sofferenze con la nostra capacità di sopportarle” (Martin Luther King, Un dono d’amore. Sermoni e altri discorsi, Edizioni Terra Santa, 2018).
E’ dunque difficile mettere in discussione il carattere sacro e inviolabile della libertà d’espressione. Ma essa è senza limiti? Per rispondere, prendiamo la celeberrima frase “Non condivido quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo”.
Dopo l’assassinio di Charlie Kirk il “commander in chief” ce la sta mettendotuttaperalimentareunclima di scontro frontale con i suoi oppositori
Nella concezione di Aristotele l’odio è un sentimento gelido e incurabile. La sua sete di annientare l’altro è inestinguibile “Le farneticazioni di un pazzo sembrano credibili quanto le scoperte di un premio Nobel. Abbiamo perso la percezione condivisa dei fatti” Nessun discorso pubblico è sciolto dal vincolo della responsabilità. Un vincolo da cui sembrano però esentate alcune piattaforme social
In effetti, già dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) la libertà di espressione è circoscritta da limiti. Perché, come nessun pasto è gratis, allo stesso modo nessun discorso pubblico è sciolto dal vincolo della responsabilità. Un vincolo da cui però sono esentate talune piattaforme social, laddove è lecito nascondersi dietro a un nickname protetto dal diritto alla privacy. Un diritto all’anonimato che incentiva le più vili campagne di odio, individuali e collettive. Non per caso la Fondazione Luigi Einaudi ha recentemente proposto di regolamentarlo con l’obbligo di esibire un documento di riconoscimento all’atto dell’iscrizione. E’ stato obiettato che quest’obbligo penalizzerebbe il dissenso nei regimi autocratici e autoritari. Ma, almeno in Italia, per fortuna non siamo ancora in questa condizione.
La tesi del free speech affonda le sue radici nel pensiero liberale di John Stuart Mill. In On Liberty (1859), si legge: “Se tutta l’umanità, tranne uno, avesse la stessa opinione cosicché una sola persona mantenesse un’opinione contraria, l’umanità non avrebbe giustificazione nel censurare quell’unica persona, più di quanto ne avrebbe quella persona nel censurare il resto dell’umanità, se ne avesse il potere”. Eppure, come Voltaire, anche Mill individua un limite alla libertà d’espressione: il rispetto del principio del danno (“harm principle”). Vale a dire che essa va tutelata in quanto, e fino a quando, contribuisce alla ricerca della verità nel mercato delle idee, a meno che non alteri deliberatamente con la menzogna tale ricerca.
Nel suo libro Free Speech (2016), Timothy Garton Ash menziona il testo di una famosa canzone di Nina Simone: “I Wish I Knew How It Would Feel to Be Free” (Vorrei sapere come ci si sente a essere liberi). E’ un inno alla libertà che all’improvviso cambia registro: “Vorrei che capissi cosa significa essere me e allora vedresti e capiresti che ogni essere umano deve essere libero”. Sono parole straordinarie, le quali suggeriscono che mettersi nei panni dell’altro è il presupposto per apprezzare la libertà di ciascuno. Per questa ragione, quando si difendono le espressioni d’odio come se fossero “solo” libertà di espressione, non si difende la libertà di tutti. Si premia la libertà degli aggressori a scapito della libertà – e della dignità – delle vittime. Tutto ciò svaluta i valori democratici e incrina la coesione sociale. Beninteso, come sottolinea Nicita, non bastano norme più incisive per vaccinarsi dal virus dell’odio. Occorrono culture politiche autenticamente democratiche, battaglie delle idee coraggiose, classi dirigenti e partiti che sappiano promuoverle. Volgendo lo sguardo all’America trumpiana, ai populismi di destra e di sinistra in Francia e nel nostro paese, all’avanzata travolgente dell’Afd in Germania, non c’è da essere ottimisti. Come recita il verso con cui si chiude “Prima del viaggio”, la magnifica poesia di Eugenio Montale, “Un imprevisto è la sola speranza”.