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Fare a gara con Dio: è l’eterna tentazione che si ripete nella storia dell’umanità. E lo strepitoso sviluppo scientifico e tecnologico degli ultimi decenni, specie nell’ambito delle scienze della vita, rende il tentativo sempre più sofisticato, facendo intendere che la meta non sia poi così lontana.
È per questo che, periodicamente, viene rilanciata la stessa notizia, con qualche variante: alcuni scienziati di chiara fama, impegnati nell’ambiziosissimo progetto di progettare una vita umana, stanno per raggiungere il loro obiettivo. Per qualche decennio la parola chiave è stata “clonazione”, con l’ovino più famoso del pianeta – la pecora Dolly – a fare da testimonial: il primo mammifero clonato avrebbe dovuto fare da apripista alle “magnifiche sorti e progressive” del Mondo Nuovo, dove la formazione di embrioni umani in laboratorio, e la successiva distruzione per ricavarne staminali, avrebbe consentito la cura di malattie inguaribili. Poi, per i più audaci, sarebbe magari diventata pure una forma alternativa di riproduzione umana. Lo ricordiamo molto bene: circolavano report come quello nel 2007 dell’Institute of Advanced Studies dell’United Nation University, con sede a Yokohama, in Giappone, dal titolo “Is human re-productive Cloning inevitabile: future options for UN governance” (“La clonazione riproduttiva è inevitabile: opzioni future per una governance delle Nazioni Unite”), che iniziava affermando che «questo rapporto valuta le risposte dell’Onu alle questioni della governance della clonazione umana». A spazzare via tutto è arrivato il premio Nobel Shinya Yamanaka con le sue “staminali etiche”, quelle per produrre le quali non bisogna distruggere embrioni formati ad hoc. E la clonazione
umana è sparita dal dibattito pubblico.
Più di recente è stata la genetica a prendersi la scena, con la tecnica di editing genetico dall’impronunciabile sigla Crispr-Cas9: una vera e propria rivoluzione, premiata in tempi record con il Nobel, che ha riportato in auge la discussione sulla possibilità di intervenire nelle primissime fasi della vita umana alterandone il codice genetico. Nel 2018 fu addirittura annunciata la nascita di due gemelle cinesi con Dna modificato a opera del genetista He Jiankui. Lui dichiarò di averlo fatto per rendere le bimbe immuni dall’infezione di Hiv, il che però non fu sufficiente a evitargli la condanna a tre anni di carcere comminate dalle autorità di Pechino per l’esperimento temerario.
E arriviamo a oggi. Un paio di giorni fa il “Wall Street Journal” ha aperto in prima pagina con la notizia del progetto “Preventive”: una start up di San Francisco, finanziata da ricchissimi come Sam Altman, amministratore delegato di Open AI (protagonista assoluto nella rivoluzione dell’Intelligenza artificiale con ChatGpt), e Brian Armstrong, ceo di Coinbase (la più grande agenzia di scambio di criptovalute negli Usa), sta lavorando a un progetto, finora tenuto riservato, con l’obiettivo di far nascere un bambino avendone modificato il Dna nelle primissime fasi della vita, allo stato embrionale, allo scopo di prevenirne una malattia ereditaria. Il capo di Preventive ha subito smentito le voci secondo le quali sarebbe già stata identificata una coppia portatrice di una malattia genetica disponibile a partecipare all’esperimento. Ma, inevitabilmente, sono riemersi dilemmi e dubbi antichi, a partire dalla possibilità che procedure di questo tipo possano essere finalizzate alla “fabbrica dei bambini perfetti”, ovvero alla manipolazione genetica di embrioni umani per far nascere bebè con le caratteristiche desiderate dagli aspiranti genitori.
Il cuore del dilemma etico che fatica a emergere nella discussione pubblica innescata dalla notizia è però tutto in chiave scientifica: per poter procedere con l’esperimento è necessario passare dalla fase in vitro – con editing genetico di colture cellulari – a quella su animali, fino ad arrivare all’umano. Serve cioè progettare un esperimento
che abbia i criteri per stabilire quali sono le condizioni necessarie perché si possa iniziare a modificare il Dna prima di cellule in provetta, quindi di embrioni animali, per poi portarli a nascita e, successivamente, decidere quando si è in grado di iniziare lo stesso esperimento su embrioni umani. Questo significa consentire di far nascere un bambino a scopo sperimentale, per poter verificare che la modifica genetica indotta abbia raggiunto l’obiettivo per cui è stata progettata – quindi, nella migliore delle ipotesi, escludendo qualsiasi finalità eugenetica, per verificare ad esempio che alcune malattie genetiche dei genitori non siano trasmesse. Ma quale soglia di rischio si può definire accettabile nella correzione genetica di un embrione? Quando si potrà avere la ragionevole certezza di escludere qualsiasi effetto collaterale, o comunque indesiderato, nella composizione del Dna alterato? Considerando, tra l’altro, che tutte le modifiche indotte saranno ereditarie? È accettabile formare un embrione umano e portarlo a nascita – cioè: far nascere un essere umano – a scopo sperimentale? E inoltre, passando a questioni di governance: sarà possibile vietare, concretamente, l’uso di queste procedure a fini eugenetici?





