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4 Febbraio 2024Louis-Auguste Blanqui (1805-1881), pensatore incendiario, attivista infaticabile, rivoluzionario indomito, teorico del colpo di stato (puntualmente mancato nella pratica, fino a far diventare la corrente di pensiero a lui ispirata sinonimo di strategia rivoluzionaria fallimentare)… e proprio per questo figura supremamente romantica, larger than life: il ‘Recluso’ che ha passato metà della vita in prigione e l’altra metà a progettare modi per ritornarci: l’ultima persona a cui si penserebbe come autore di un trattato di cosmogonia fondato sul principio dell’Eterno Ritorno.
Proprio così: l’emblema dell’estrema sinistra più utopista e radicale, il fondatore della rivista “Ni Dieu ni maître”, colui che ispirò Marx ed Engels (l’idea che la minoranza con un colpo di stato violento rovesci il regime e imponga la dittattura del proletariato) ma anche il giovane socialista Mussolini (pensiamo al motto “Chi ha del ferro ha del pane”), rifletterà proprio sul tema centrale della visione tradizionale dell’esistenza (da Guenon a Eliade): il tempo ciclico, l’eterno ritorno.
Ovviamente, lo farà in prigione, addirittura in isolamento: in una fortezza in Bretagna, Fort du Taureau, dove nel 1871, “l’eterno cospiratore” viene segregato per rendergli impossibile qualsiasi contatto con la Comune parigina, che vedeva un giovane Rimbaud sulle barricate (e dove “itifallici e soldateschi” i lazzi della truppa rivoluzionaria gli ruberanno “il cuore”, ma questa è un’altra storia).
E, appunto, nell’impossibilità della rivolta nel presente, Blanqui può rivolgersi solo al cielo stellato, la cui vista gli è negata: e come Sade alla Bastiglia, ma con vocazione antitetica, sebbene parimenti rivoluzionaria, condurrà una meditazione vertiginosa su foglietti clandestini, nella fattispecie ventuno piccoli rettangoli, scritti con calligrafia lillipuziana, occultati e consegnati rocambolescamente all’indifferenza della sorella.
Furono pubblicati l’anno dopo, tre giorni dopo la condanna di Blanqui all’ergastolo.
Si tratta di una riflessione meravigliosamente spiazzante da parte del più noto agitatore di sedizioni dell’Ottocento: «Ogni astro, qualunque esso sia, esiste dunque in numero infinito nel tempo e nello spazio, non soltanto sotto uno dei suoi aspetti, ma quale si trova in ognuno degli istanti della sua vita, dalla nascita sino alla morte. Tutti gli esseri distribuiti sulla sua superficie, grandi o piccoli, viventi o inanimati, condividono il privilegio di questa perennità». Dunque, ne consegue che ogni uomo «possiede nello spazio un numero infinito di doppi che vivono una vita tale e quale la sua». Sembra un passo di Borges fresco di lettura dei Veda: non a caso il genio argentino si ispirerà al prodigioso saggio del recluso, assieme a Bioy Casares, addirittura per una serie di racconti.
Eppure, la derivazione “cosmica” del pensiero di Blanqui è interamente coerente con la tradizione del pensiero materialista, da Democrito in poi.
Se la mente affilata di Walter Benjamin lesse nelle pagine del Recluso una sorta di disperato nichilismo, come ricorda Luigi Azzariti-Fumaroli su Il Foglio, in realtà (proprio come nelle interpretazioni più vitalistiche della profezia nietzscheana) la visione di Blanqui sembra piuttosto l’invito a una rivolta permanente, in egual parte affine ai destini infami e gloriosi di Prometeo e Sisifo (non citiamo Lucifero per non turbare le anime belle).
Adelphi, con una pubblicazione degna del suo catalogo impagabile e della visione calassiana (i primi progetti della casa editrice sul testo sono datati più di quaranta anni fa), ha affidato a Ottavio Fatica la curatela della nuova edizione de L’eternità viene dagli astri (con la traduzione di Raffaele Fragola).
Fatica, che già per Adelphi curò il bel volume antologico dedicato allo Yeats esoterico chiamato Magia, e che vanta una carriera importante e variegata di traduzioni di nostri auctores, ha risposto da par suo ad alcune nostre domande sul testo, da lui scandagliato con acume in un saggio posto al termine dell’opera originale nell’edizione che vi stiamo presentando.
L’eternità viene dagli astri
«Ogni astro, qualunque esso sia, esiste dunque in numero infinito nel tempo e nello spazio, non soltanto sotto uno dei suoi aspetti, ma quale si trova in ognuno degli istanti della sua vita, dalla nascita sino alla morte. Tutti gli esseri distribuiti sulla sua superficie, grandi o piccoli, viventi o inanimati, condividono il privilegio di questa perennità»
Come introdurresti brevemente la straordinaria figura di Blanqui a chi non lo conoscesse?
«ll Cristo del XIX secolo». Così almeno lo hanno definito i contemporanei, ignari del fatto che proprio con L’eternità viene dagli astri aveva anche lui pensato di farli ‘risorgere’ – e non una bensì mille e una volta, e poi mille altre ancora – all’infinito. Un cattivo infinito, se mai altri. O un’atroce parodia della Resurrezione – non del Risorgimento, anche se lo consideravano il primo cospiratore d’Europa, colui che aveva fatto dell’insurrezione «il più sacro dei doveri» – o un luogo comune, a detta di Flaubert. Che aveva passato quarantatré anni e due mesi fra prigione, arresti domiciliari e esilio, su settantacinque. Per stare poi al governo per una fiammata: dieci ore. La rivoluzione è sempre contro un Dio. Sta’ a vedere che l’Anticristo è lui e non Nietzsche. Magari disegnato da Jarry.
Come si colloca il saggio di Blanqui nella stagione attraversata di fermenti tumultuosi e contrastanti della seconda metà dell’Ottocento francese?
Come un monolite infilzato di traverso nell’occhio del demi-monde, hai presente la luna di Meliès? E se la borghesia e il gran mondo non esistono più, se mai sono esistiti, quale sarebbe l’altra metà del frutto proibito, della mela-mondo? Quella che prova a smerciare la pubblicità?
C’è una relazione fra la domanda “metafisica” che agita il saggio di Blanqui e la commistione fra misticismo messianico e rivolta politica che attraversava i primi movimenti socialisti?
Non ai miei occhi. La vede, perché ce l’ha messa lui (e ha fatto bene, date le sue mire), Walter Benjamin. Blanqui non ha il sole dell’avvenire a indorargli l’orizzonte, non traspone per comodità d’astrazione una presenza fisica, spaziale, in desiderabile versione temporale. Blanqui non era ebreo, né socialista: era un barricadero, innalzava barricate sempre più alte, che non si limitavano a grattare i cieli. Era un rivoluzionario ‘terra terra’. E ‘cielo cielo’.
Qual è il possibile confronto fra l’Eureka di Poe, testo amato e tradotto da Baudelaire, e il saggio di Blanqui?
Sono due brevi portentosi poemetti cosmogonici in prosa. Gli autori sono convinti di aver «risolto il mistero dell’universo». Una differenza pratica è che, il suo, Blanqui ha dovuto scriverlo di nascosto su fogli di piccolo taglio e con calligrafia microscopica, da leggere con la lente d’ingrandimento. Sempre di nascosto confiderà il manoscritto alla sorella durante una delle visite che riceveva in prigione. Poe e Blanqui: due che a un certo punto – il punto omega – hanno creduto di capire il funzionamento del cosmo. Il cosmo è entrato tutto nella loro testa. Come dire: due matti. O due scienziati. Vederlo per un attimo con i loro occhi può essere abbagliante; poi, più buio.
In che modo la tesi vertiginosa di Blanqui si può collegare a quella, praticamente contemporanea, dell’Eterno Ritorno di Nietzsche?
Basta metterli dove hanno voluto pervicacemente andarsi a mettere da soli. Blanqui a Fort du Taureau, in fondo a una segreta, uno speco che è riuscito a convertire in specolo per meglio guardare, per vedere – lui vuole vedere – come dal fondo di un pozzo, più nitida, più blu, la volta celestiale. C’è da dire che se soltanto avesse provato a cacciare fuori il naso, l’ordine – per le guardie della fortezza che gelosamente custodiva solo lui – era di sparargli a vista. Non doveva poter guardare fuori, neanche il mare, che rispecchiava il cielo e circondava il carcere. E il resto dell’universo mondo. Nietzsche è a Silvaplana, a mezzodì, presso una grande roccia piramidale, «a seimila piedi dall’uomo e dal tempo» che avrà la sua enigmatica visione. Il cosiddetto firmamento non è più tanto fermo. Questo capita a chi guarda troppo a lungo nell’abisso. Sviluppa uno sguardo abissale. Quello di chi scopre di avere il caos dentro di sé. Dopo di che si possono perfino partorire stelle danzanti. I loro testi danzano in quei cieli.
Quanto è stata importante la ricezione di Walter Benjamin nella fortuna dell’opera?
Notevole ma, al tempo stesso, limitata, anche nel tempo, cioè fino a poco prima della fine del secolo, se vuoi del millennio, scorso. Mentre compulsavo materiali per il saggio di accompagnamento al libro di Blanqui, proprio dentro una raccolta collettiva di scritti su Benjamin, mi sono imbattuto in una nota di Franco Rella che annunciava l’uscita ‘prossima’ dell’Eternità viene dagli astri presso Adelphi per la cura di Roberto Calasso. Era il 1982. Poi negli anni ho avuto modo di parlarne più e più volte con lui. Ma l’opera restava – forse a decantarsi – nelle retrovie. A ben vedere si è trattato di un semplice passaggio di testimone lungo l’arco breve di un quarantennio.
Qual è stata l’influenza del testo di Blanqui sulla letteratura del Novecento (Borges e non solo)?
A parte Borges e Bioy Casares, insieme e separatamente, in varie opere… ci sarà pure, ci sarà senz’altro, ma in zone meno battute, in cerchie meno note del mundus subterraneus letterario o filosofico, e comunque a mia insaputa.
Da Robert Graves a Flannery O’Connor, da Stevenson a Tolkien, da Yeats a Girard, a partire dal Mahabharata, ti sei occupato nella tua carriera di traduttore e curatore di molti autori e testi che hanno affrontato il tema del Sacro e degli archetipi, in maniera esplicita o meno. Esiste una perenne attualità di questi temi “inattuali”? E in che modo un rivoluzionario come Blanqui ne può (se è corretto dirlo) riaffermare il valore filosofico perenne?
Di certi ‘temi’ sussiste una perennità inattuale, per invertire l’ordine dei fattori. Il loro eventuale valore filosofico ‘perenne’ lo riaffermano scontrandosi ogni volta con il tempo sempre sfalsato dentro il quale si trovano a vivere, se è vivere, scontandolo nel presente, il più inattuale dei tempi. Qui è dove il passato diventa futuro, il qui presente, il qui sempre presente. Quello storico di Blanqui, per Blanqui era atroce, da sconfiggere a ogni costo. E lui – non serve rammentarlo – ha perso. Ma a che gioco giocava un senzadio?
Adriano Ercolani è si occupa da oltre vent’anni dei rapporti tra cultura occidentale e orientale. È tra i fondatori deI movimento internazionale Inner Peace, collabora al progetto filosofico Tlon e pubblica regolarmente interventi e approfondimenti su numerose testate.