A Ventotene durante il fascismo c’erano 800 confinati e 350 sorveglianti. Nella piccola isola le differenze ideologiche tra i reclusi venivano amplificate dalla dimensione claustrofobica in cui erano immersi: i comunisti non andavano d’accordo con quelli di Giustizia e libertà, gli anarchici mal sopportavano i socialisti e tutti guardavano con diffidenza i “manciuriani”, quelli che erano finiti al confino per motivi tutt’altro che politici, schiacciati dal peso dei loro reati comuni. L’ortodossia, la fedeltà alla linea veniva interpretata non solo come una ferrea regola ideologica ma anche come una norma in grado di ispirare e controllare i comportamenti della vita quotidiana. Il risultato era l’esasperazione delle tensioni, l’esplodere delle contraddizioni in maniera molto più vistosa di quanto accadesse in libertà. Ma non fu per questi motivi esistenziali che i comunisti non gradirono affatto il Manifesto “per un’Europa libera e unita” elaborato, proprio a Ventotene, nella primavera del 1941, da un gruppo di giellisti e di socialisti raccolti intorno ad Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, Ernesto Rossi ed altri. E non si trattava solo del fastidio per il velleitarismo di un piccolo nucleo di intellettuali che, su uno scoglio sperduto nel mar Tirreno, si permettevano di pensare in grande ipotizzando, addirittura, una “federazione europea”, proprio nel momento in cui le armate di Hitler e Mussolini sembravano dilagare vittoriosamente in tutto il continente. No: in quel documento c’erano una serie di punti particolarmente indigesti per quanti credevano in maniera cieca e assoluta nel mito di Stalin.

Il primo era quello di considerare la guerra come il male assoluto, ma anche come un’opportunità per raggiungere una pace stabile e duratura (come si direbbe oggi), mentre per Stalin l’imperativo categorico era solo uno, vincere la guerra; il secondo sottolineava la necessità di limitare e controllare la “sovranità” dei singoli Stati nazionali perché proprio dai loro egoismi era scaturito il disastro della seconda guerra mondiale (mentre Stalin, lo ricordiamo, si era presentato al suo popolo come il condottiero di una “guerra patriottica” soprattutto per riaffermare la sovranità e l’indipendenza dell’Urss); il terzo era legato al rifiuto del partito come unico modello di organizzazione politica e al favore con cui si guardava invece a forme di autogoverno e di decentramento, con uno Stato aperto verso tutte le aggregazioni spontanee della società civile, inclusivo, flessibile, democratico, estraneo alla dimensione pachidermica che nello stalinismo avevano assunto gli assetti istituzionali e quelli partitici; il quarto, di conseguenza, era la netta ripulsa nei confronti di ogni struttura totalitaria, guardando al “partito di massa”, appunto, come all’humus sulla quale poteva facilmente attecchire la malapianta del totalitarismo.

Contro la guerra, e nella speranza di un futuro di pace, il federalismo europeo proposto dal Manifesto puntava quindi da un lato sulla disarticolazione dello Stato/Moloch attraverso il decentramento, dall’altro alla ricerca di una nuova superiore unità, al di là e al di sopra dello Stato. Il testo era chiarissimo: «militarismo, dispotismo, guerra possono essere eliminati solamente creando una Federazione europea alla quale siano trasferiti quei poteri sovrani che concernono gli interessi comuni di tutti gli europei e che in mano agli Stati nazionali sono oggi strumenti di rovina».

L’idea di una Europa libera e unita era affiorata anche in altri momenti di crisi: nel 1848, nel 1866-67, dopo la prima guerra mondiale, sempre nell’ambito del pensiero politico radicale di matrice sia liberale che democratica. In questo senso, però, il Manifesto di Ventotene segnò una svolta, presentandosi più come un programma di azione che una dichiarazione di principio. L’Europa federale «non cade dal cielo», era scritto nel documento. Per costruirla ci voleva il pensiero e ci voleva l’azione; Mazzini si, Stalin no.

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. L’Unione Europea (allargatasi fino a 27 stati) non ha quasi nessuno dei tratti della federazione auspicata da Spinelli e i suoi compagni. La sua costruzione simbolica è ferma alla scelta della bandiera (12 stelle dorate su uno sfondo blu), dell’inno ufficiale ( l’Inno alla gioia della Nona Sinfonia di Beethoven), del motto (“Unità nella diversità, variegate concordia”) e di una giornata, quella del 9 maggio, da celebrare in tutti gli Stati che aderiscono all’Unione, in ricordo del 9 maggio 1950, data dell’appello di Robert Schuman per la fondazione della Ceca (Comunità europea per il carbone e l’acciaio). Poco, troppo poco per fare gli europei, dando loro un’anima e uno spirito comuni e per chi aveva l’ambizione di creare, con la Federazione, «un ordinamento in grado di garantire la pace e la giustizia internazionale».

Vale la pena ricordarlo: nel 2012 all’Unione europea fu attribuito il premio Nobel per la pace in virtù del suo contributo «alla costruzione di un continente di pace e di riconciliazione» e di un modello sociale «fondato sul Welfare e la Carta dei diritti fondamentali».

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