Dopo la fine della Guerra Fredda, con il Trattato di Maastricht del 1992, l’Ue si era decisa a dotarsi di una politica estera comune. Con il Trattato di Amsterdam del 1997 fu quindi formalizzata la figura dell’Alto rappresentante, il cui ruolo è stato rafforzato dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel dicembre 2009. Finalmente, si disse, l’Ue ha un ministro degli esteri, potendo così parlare con una sola voce negli affari internazionali. Per di più, si riteneva che il doppio ruolo assegnato all’Alto rappresentante, cioè di presidente del CAE e allo stesso tempo vicepresidente della Commissione europea intesa come organo sovranazionale, avrebbe condotto alla progressiva europeizzazione delle politiche estere degli stati membri. Si pensava di aver risolto il problema della politica estera europea creando un nuovo organismo, senza modificarne però la sostanza. Ovvero che i governi nazionali hanno continuato a tenere sotto il loro controllo la politica estera attraverso la logica intergovernativa del CAE, affidando all’Alto rappresentante una funzione di coordinamento (nel caso migliore) o di servizio ai Paesi più forti (nel caso peggiore). Il risultato è che l’Ue non ha una sua politica estera, come le ha ricordato Rubio.
Il coordinamento intergovernativo delle politiche estere nazionali ha difficoltà a funzionare in un’Unione di 27 stati membri, portatori di preferenze che sono diverse per via della loro collocazione geografica, esperienza storica e dinamica politica. La minaccia dell’imperialismo russo viene percepita in modo differente, a seconda che si viva a Tallinn o a Lisbona. Per di più, il CAE decide all’unanimità, riconoscendo un potere di veto ad ognuno dei ministri che lo compongono. Così, nelle condizioni di una crisi, i governi nazionali, specialmente degli stati membri più grandi, hanno seguito le loro priorità, proprio perché non esisteva una posizione comune. Tale debolezza europea è stata a lungo occultata dalla forza americana. All’America è stata appaltata, dall’Ue, la politica estera e (soprattutto) la politica di sicurezza. Sotto l’ombrello americano, i vari governi nazionali potevano qualche volta scalciare, senza però uscire dalla sua copertura. La guerra in Ucraina ha reso evidente le ambiguità europee. Senza la leadership americana, molto poco avrebbero potuto fare i governi nazionali dell’Ue. Tant’è che si sono dovuti limitare alla politica delle sanzioni economiche, incontrando anche qui resistenze non da poco. Basta pensare che i premier Viktor Orban e Robert Fico (dell’Ungheria e della Slovacchia) hanno già minacciato il veto all’approvazione del sedicesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia, in coerenza con le aspettative di Mosca. E, di fronte ad un veto, nulla si può fare. Se la leadership americana si ridimensionerà (per via del disimpegno trumpiano dalla Nato e dall’Europa), l’Ue intergovernativa non sarà in grado di sostituirla. Nessun stato membro, a cominciare dalla Francia, potrà prendere il posto lasciato scoperto (o semiscoperto) dall’America, ad esempio sul piano tecnologico e industriale. La Francia, inoltre, ha una visione di politica estera che divide l’Ue, con il suo antiamericanismo e soprattutto con la sua idea che l’Ue debba essere una Francia in grande. Eppure, solamente la Francia potrebbe avviare il percorso verso la sovra-nazionalizzazione della politica estera e di sicurezza, dichiarando di volere condividere il suo deterrente nucleare all’interno di un sistema europeo e di voler trasformare il suo seggio al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite in un seggio dell’Ue (senza più nascondersi dietro cavilli giuridici). In questo modo chiuderebbe la frattura che aprì nel 1954 quando decise di non votare il Trattato della Comunità europea della difesa.
Insomma, Marco Rubio si è limitato a prendere atto della nostra situazione. Dopo tutto, per lui e il suo presidente, è conveniente che l’Ue non esista in quanto attore unitario, così da poter negoziare da una posizione di forza con ognuno dei suoi stati membri. Un esito che sarebbe disastroso per noi, come ha dovuto riconoscere l’euroscettica Danimarca, che aveva a lungo rifiutato di partecipare persino al coordinamento intergovernativo della politica estera e di sicurezza europea, per poi aderirvi nel luglio del 2022, pochi mesi dopo l’aggressione russa all’Ucraina. E che oggi, di fronte alle pretese imperiali di Trump in Groenlandia, si scopre fortemente europeista. Se l’Europa non siederà al tavolo dei Grandi, tutti noi saremo nel menù.