di Mario Baudino
Un editore di vent’anni volle liberare Ezra Pound dal manicomio in cui era rinchiuso dal ’45, dopo che gli americani lo avevano arrestato per altro tradimento ma dichiarato incapace di intendere e di volere. E ci riuscì mobilitando gli scrittori italiani intorno a un appello rivolto all’ambasciata americana, che di per di sé non venne preso ufficialmente in considerazione ma fu in qualche modo decisivo nell’imprimere una svolta a un movimento d’opinione globale.
Era Vanni Scheiwiller (1934 – 1999), succeduto al padre nella raffinata casa editrice dedicata soprattutto ai poeti, compreso ovviamente Pound. Raccolse 33 adesioni, tutte di altissimo profilo, da Ungaretti a Moravia, ma non fu impresa facile; perché nel mondo letterario italiano, al di là della sua infatuazione per il fascismo e soprattutto per la figura di Mussolini, l’autore dei Cantos – e di un capolavoro come lo Hugh Selwyn Mauberley – era guardato sì con ammirazione, ma anche con una certa diffidenza.
Peraltro ricambiata – come si ricava dalla lettura di La libertà dell’intelligenza. Ezra Pound, un intellettuale tra intellettuali (edizioni Ares) a cura di Roberta Capelli e Alice Ducati, che pure raccoglie saggi in apparenza molto specifici sulla vicenda poundiana. Letti nel loro complesso ci raccontano però una grande storia tragica, che non è solo quella di un appello. In quattro studi compresa l’introduzione di Capelli sul ruolo internazionale del poeta, si affrontano il dialogo con Marshall McLuhan dal manicomio giudiziario (Manlio Della Marca), il rapporto con l’anglista e traduttore Carlo Linati (Maurizio Pasquero) e la vicenda dell’appello, ricostruita con lettere e documenti inediti d’archivio, da Carlo Pulsoni: che parte dal 1955, quando sul Corriere della Sera Giovanni Papini, con un articolo in cui chiede clemenza per il miglior fabbro – come lo definì T. S. Eliot -, apre per così dire la strada.
Di Pound e della sua prigionia, prima disumana, in una gabbia nel campo di Coltano, quella dove scrisse i Pisan Cantos, poi nell’ospedale psichiatrico dove invece poteva ricevere visite e scrivere lettere, si parlava già da tempo, com’è ovvio. Nel ’48, in America, gli era stato conferito il Premio Bollingen della Library of Congress; della giuria facevano parte T.S. Eliot e W.H. Auden. La campagna per la liberazione era nell’aria, ma ancora nessuno l’aveva organizzata. Vanni Scheiwiller se ne assunse l’onere. Mobilitò, a partire da Ungaretti, tutti i maggiori scrittori europei (ad eccezione, volle precisare in una lettera a Jean Cocteau, di quelli «d’oltre cortina e quelli fascisti, mi pare non abbiano il diritto di firmare»). E tuttavia quando Pound, finalmente liberato, tornò in Italia, nel ’58, l’evento non fu poi così clamoroso. Stava iniziando per lui il lungo «tempus tacendi» (morirà a Venezia nel 1972); ma non ammise mai i propri madornali errori.
Dalle lettere che inviava ancora dall’America ai corrispondenti italiani (in particolare appunto a Linati) sembra di cogliere l’immagine d’un grande poeta che tuttavia non ha capitò né il suo Paese d’elezione, dove arrivò nel ’25 stabilendosi a Rapallo, né tantomeno il fascismo; rivendica anzi d’aver agito sempre in conformità alla costituzione degli Stati Uniti, di non essere mai stato antisemita. «Ho considerato il fascismo IL POSSIBILE in ITALIA (in maiuscolo nel testo, ndr) in dette circostanze», scrive all’amico Manlio Dazzi. Si scagliava contro l’usura, il totem polemico delle sue dottrine economiche. Pagò care le sue trasmissioni in inglese all’Eiar, dai toni oggi diremmo equivocamente pacifiste. Dopo l’8 settembre si mise a disposizione della Repubblica di Salò e dei suoi macellai, senza rendersi conto di chi fossero gli interlocutori.
Quale demone lo stava ingannando? Proprio Pasolini, che non aveva firmato l’appello e anzi era sempre stato categorico al proposito («non sono affatto tenero con quel fascista – scrisse a Scheiwiller – essere poeti non significa essere pazzi o irresponsabili») lo intervistò in un trasmissione Rai del ’67, rispettoso e devoto; e non glielo chiese. Montale aveva invece aderito. Generosamente, si direbbe, considerato che conosceva personalmente il poeta anche se in modo superficiale; con un certo ironico distacco lo aveva definito in un articolo del ’55, «erudito, ma di una erudizione che sapeva di digesto, di corso accelerato»: sottolineando però come proprio quella sua strana idea dell’Italia, mussoliniana ed «eroica», non fosse la via migliore per comprendersi a vicenda.