L’arte (non solo) etrusca dalle origini a Picasso
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I grandi festival culturali sono parte del nostro panorama, entrano nella vita del nostro paese ormai da qualche anno, tanto che forse rischiamo persino di darli per scontati. O meglio, rischieremmo di darli per scontati se non fosse arrivata la pandemia a farci di colpo percepire quanto sono fragili certe certezze. L’emergenza sanitaria è stata una grande sfida: molte attività a cui eravamo abituati sono state necessariamente sospese, e per ognuna di queste la domanda che sempre ci si poneva era «ma poi tornerà tutto come prima, oppure no?».
Una prova tangibile della tenuta di questo Paese sta proprio nel fatto che certe attività culturali riprendono. Come prima? Beh, forse nulla sarà più come prima, perché dalla pandemia abbiamo imparato, ma tutto quello che prima c’era di buono ora c’è di nuovo. Parlo di tenuta di questo Paese perché in realtà – appunto – noi siamo talmente abituati al fatto che chi si interessa di cultura può trovare continuamente (almeno in certe stagioni) occasioni straordinarie di arricchimento, di incontro e di discussione che rischiamo di dimenticarci almeno due cose: uno, che trent’anni fa non c’era niente del genere nel nostro Paese e, due, che negli altri Paesi non è certo possibile qualcosa di analogo. Iniziative di questo genere esistono anche altrove, certo, ma sono abbastanza sicuro che l’Italia da questo punto di vista sia veramente un paese unico, per il tessuto di città grandi e piccole città piene di storia, piene di tradizione, con un’identità e un orgoglio fortissimo e che perciò offrono location ideali per questo genere di attività. Nessun altro Paese ha un tessuto così fitto di città e cittadine tutte diverse una dall’altra, Camogli è molto diversa dalla adiacente Recco, per esempio: ma fallo capire a un americano! Città e cittadine offrono la cornice ideale, tant’è vero che di tanto in tanto nascono nuovi festival: quello della Comunicazione è un festival ancora relativamente nuovo. I direttori Danco Singer e Rosangela Bonsignorio l’hanno inventato insieme a Umberto Eco nel 2013, il sindaco l’ha ospitato, io l’ho visto nascere sin dalla prima edizione e ho assistito a quanto idee azzeccate come formula e luogo riescano ad attecchire, e attecchiscano con una forza tale da superare anche tutte le difficoltà degli ultimi anni.
Sono osservazioni che facciamo tutti, ma vale la pena di ribadirle. Un Festival come quello di Camogli è un’occasione irrinunciabile: la formula è quella giusta, si incontrano moltissime di persone di cui è interessante sentire ciò che hanno da dire, si stringono delle amicizie tra relatori nuovi e storici, e infatti Camogli è veramente il posto in cui molti dei relatori – incluso il sottoscritto – sono diventati amici.
Ci sono questioni che non tutti sanno perché magari non si dicono in maniera esplicita. I relatori dei festival tra loro si dicono: «Se ti invitano lì, vacci, si mangia benissimo!», «Se ti invitano lì, vacci, ti fai l’ultimo bagno della stagione», «Vacci, l’albergo è meraviglioso». Siamo tutti esseri umani naturalmente. E questo vale non solo per i relatori, che ci vanno gratis, ma per chiunque ci vada. Parlare dei ristoranti potrebbe sembrare un abbassare il tono, ma in realtà tutto contribuisce perché quello che conta è l’atmosfera che si respira: nelle strade di Camogli nei giorni del Festival della Comunicazione di sente l’euforia: sei in mezzo a gente che sta vivendo bene e sta godendo sia con il corpo sia con la testa. Prima con la testa, ovviamente in oltre 100 eventi, ma quell’atmosfera resta fondamentale.
Il segno che la formula di un festival sia azzeccata arriva quando il filo conduttore che si è scelto per un’annata, per un’edizione, effettivamente ti fa dire «però di questo vale la pena di parlarne». Tutti i festival hanno da sempre un tema, una parola d’ordine, un filo conduttore. A dire il vero non so il perché, in effetti non sarebbe nemmeno indispensabile, e non è neanche raro che il filo conduttore di un festival sia abbastanza palesemente qualcosa di escogitato per fare in modo che tutti poi ci possano ficcarci dentro qualcosa, perché non si può neanche pensare che tutti i relatori si mettano a studiare appositamente. Insomma, certe volte il tema è un contenitore un po’ vago, anzi, più generico è e meglio è. Altre volte invece è un tema che effetti-vamente ti fa dire che vale la pena sentire cosa ha da dire il filosofo, cosa ha da dire lo storico, cosa ha da dire il linguista, lo studioso del comportamento. La libertà, il tema del Festival della Comunicazione di quest’anno, è uno di questi, perché è una di quelle parole che sembrano ovvie da un lato – e da un certo punto di vista lo sono davvero, perché tutti sentiamo cosa voglia dire la libertà – ma poi quando ci si mette ad analizzarle ci si rende conto di quante significati diversi possa avere, di quante cose diverse abbia voluto dire nonostante sia un elemento in cui tutti si riconoscono.
Da medievista, parlerò essenzialmente di come il concetto di libertà nel medioevo poteva essere diverso da quello che pensiamo noi o da quello che si è pensato in altre epoche. C’erano usi del concetto di libertà che a noi possono sembrare sconcertanti: nel medioevo libertà poteva voler dire privilegio, diritti che non erano esattamente tali dato che li si possedeva solo perché l’imperatore o il conte li aveva concessi. Era stato concesso, per esempio, che in una nostra cittadina entro quel certo spazio fino al torrente, fino alla pietra con la croce che abbiamo posizionato lì, chiunque fosse aggredito avesse diritto a rivolgersi alla giustizia, mentre se una persona era aggredita al di fuori nulla, erano fatti suoi. Questa era una libertà: lo spazio entro il quale gli abitanti sapevano di avere dei diritti che altri non possedevano.
Quando Dante decide di fare una delle cose concettualmente più sbalorditive tra le tante della Commedia, ossia mettere in Purgatorio e quindi destinare al Paradiso il pagano suicida Catone, deve averci pensato bene. Ebbene, Dante lo destina alla salvezza perché Catone si è suicidato ma per la libertà, perché stava combattendo una guerra con quel fine e nel momento in cui s’è accorto che quella guerra (e la libertà) era persa ha preferito ammazzarsi. Virgilio poi presenta Catone a Dante e gli spiega quanto sia una persona pronta a tutto per la libertà, libertà, va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta.Non c’è bisogno di ripetizioni per capire quello che sta dicendo Dante, lo capiamo subito noi tanto quanto coloro che sono saliti sulle nostre montagne nel 1943-1944 a combattere. Libertà è al tempo stesso qualcosa che, come esseri umani, intuiamo d’istinto cosa significhi, perché sappiamo distinguere l’essere liberi dal non esserlo, ma poi al tempo stesso è un concetto culturalmente complicatissimo che ogni epoca, ogni cultura ha rimodellato e modificato in mille modi. Per questo un tema del genere non è un contenitore un po’ generico che possa andare bene per tutti. Al contrario, credo che a Camogli ne verranno fuori riflessioni importanti per tutti.