Quello che i nostri occhi vedono non è oggettivo; dipende da come abbiamo appreso a descrivere il mondo. Questa descrizione è il frutto di innumerevoli passaggi cognitivi che offrono l’illusione di abitare uno spazio identico per tutti, che invece rivela a ciascuno una sfumatura differente, in funzione a quello che è il principale strumento con cui operiamo le nostre descrizioni del mondo: vale a dire il nostro corpo.
A sua volta il corpo, come sosteneva negli anni Trenta l’antropologo francese Marcel Mauss, non è libero e neutro, ma rappresenta il primo e più naturale strumento dell’essere umano, un mezzo tecnico che ha bisogno di tecniche e pratiche sociali, e che in effetti prende forma e contenuti attraverso l’educazione intorno a ciò che bisogna ritenere “normale”. Ogni epoca adotta canoni differenti di normalità, e dispone i corpi attraverso forme e posture specifiche.
IN POSA
Ecco, forse, perché oggi bambini e bambine si rivolgono agli obiettivi dello smartphone mettendosi in posa ed elaborando frasi da stories con grande velocità, percependo di star parlando a un pubblico, anche se composto solo dai nonni e dagli amici di famiglia. Li sollecitiamo fin da neonati a guardare in camera, a fare video buffi, a salutare persone sconosciute in videochiamata, a cambiare i connotati con i filtri divertenti, e in questo modo trasmettiamo loro un imprinting e delle tecniche del corpo che ne fanno, da subito, dei performer.
Del resto, anche il modo in cui noi adulti ci mettiamo in posa per le foto non è naturale: cerca di ricordare, per esempio, tutte le volte in cui hai visto qualcuno tenere la mano sul fianco e piegare il gomito in avanti mentre posava per uno scatto. È la cosiddetta tecnica dello skinny arm, cioè del «braccio magro», perché in quella posizione si appare più sottili. È possibile che le persone lo facciano inconsapevolmente, o convinte che venga loro naturale. In realtà, anche se non se ne rendono conto, l’hanno appreso.
Lo stesso accade quando parliamo di bellezza, facendo riferimento a un modello giusto e normale a cui dovremmo adeguarci e sulla base del quale giudichiamo noi e le altre persone. La nostra società, del resto, ha una vera ossessione per la bellezza, e intorno alla bellezza ha costruito un mercato. Il nostro spazio sociale è permeato da un’idea codificata della bellezza, e il modo in cui si appare ha effetti significativi sulla propria vita, sul proprio lavoro, sulla propria reputazione.
Il paradosso è che chi si arrovella sul proprio aspetto, chi fa della bellezza un problema e si lascia toccare dal giudizio esterno venga percepito come una persona debole, con scarsa autostima, incapace di andare avanti per la propria strada in modo deciso e adulto. Bisogna imparare a non badare a quello che ci viene detto, ricordarsi che le immagini sui giornali sono ritoccate, che la vera bellezza è quella interiore.
L’OGGETTIVAZIONE
In realtà, sono numerosissimi gli studi scientifici che documentano quanto la pressione sociale sulla bellezza sia sempre più schiacciante e porti a oggettivare le persone – le donne in particolare – e a auto-oggettivarsi di conseguenza.
Nel 1997, Barbara L. Fredrickson e Tomi-Ann Roberts formularono la teoria dell’oggettivazione, secondo la quale i corpi femminili, valutati e osservati in misura maggiore rispetto a quelli maschili, vengono percepiti come oggetti. Le donne, in altre parole, non sono viste come esseri umani dotati di pensieri, emozioni, desideri, ma prima di tutto come oggetti sessuali.
Lo sguardo oggettivante porta alla frammentazione della coscienza e incide sulle prestazioni cognitive: in altre parole, riempie e intossica i pensieri quotidiani e le risorse intellettuali ed emotive che potrebbero essere destinate alla propria crescita personale e professionale. È proprio come se ci guardassimo da fuori, secondo quella che in neuropsicologia viene chiamata visione allocentrica del corpo, e questo ci impedisce di vivere pienamente le nostre esperienze di vita, di sentirci in fioritura, di seguire la nostra vocazione.
Ancora oggi numerose ricerche cercano di esaminare il legame tra il processo di auto-oggettivazione e la consapevolezza enterocettiva, cioè la facoltà di ascoltare e riconoscere le informazioni e gli stimoli provenienti dal proprio corpo: la fame e la sete, il battito cardiaco, il bisogno di riposo, l’appetito, gli stati emotivi.
Gli studiosi stanno cercando di capire come gli standard di bellezza influenzino l’immagine corporea, la salute mentale, i comportamenti alimentari, il livello di soddisfazione sessuale e la realizzazione intellettuale e come riducano gli stati di picco (le peak experience teorizzate da Abraham Maslow) e le esperienze di flusso (le flow experience di Miháli Csíkszentmihályi), cioè quelle sensazioni di totale assorbimento nell’esecuzione e nello scorrere fluido di una certa attività fisica o mentale, vissute dall’individuo come momenti particolarmente gratificanti e piacevoli, che danno senso a ciò che sta facendo.
UNA QUESTIONE PRESSANTE
Se fino a qualche anno fa gli uomini non erano toccati da questi effetti, adesso la situazione è cambiata: i modelli a cui adeguarsi sono sempre più numerosi e anche il corpo maschile è diventato oggetto di discorso, oltre che target di mercato, con conseguenze prevedibili sulla percezione di sé.
Come è accaduto tutto questo? Perché la bellezza è diventata una questione così pressante, che muove un’industria in crescita e ha tanta influenza sulla vita delle persone? Le ragioni sono da ricercare in un periodo di totale cambiamento socio-economico e culturale, tra la fine del Settecento e l’inizio del Novecento: sviluppo tecnologico, urbanizzazione, industrializzazione, nascita della grande distribuzione e dell’editoria moderna diedero vita a un nuovo ordine sociale, a nuovi valori che dovevano essere trasmessi in ogni modo e in ogni ambito della vita.
La moda maschile, per esempio, ridusse lo spettro dei colori e dei tessuti, definendo quelle linee minimali che oggi consideriamo “eleganti”, ma che in realtà sono frutto di una scelta recente. O di una rinuncia, come sosteneva lo psicologo John Carl Flügel, secondo cui con la nascita della classe borghese «gli uomini rinunciarono al loro diritto alle forme di decorazione più brillanti, sfarzose, eccentriche ed elaborate, cedendolo completamente alle donne, e facendo perciò dell’abbigliamento maschile un’arte tra le più sobrie ed austere. Dal punto di vista sartoriale, questo avvenimento dovrà essere considerato come la “Grande rinuncia” del sesso maschile».
L’uomo doveva mostrarsi pubblicamente sobrio, decoroso, trasparente, efficace, fermo. Un insieme di simboli che si manifestava con l’eliminazione di qualunque elemento rischiasse di essere di troppo, e che mutarono il senso del gusto e del concetto di eleganza.
Il modo contemporaneo che abbiamo di pensare alla bellezza, dunque, viene da qui, dalla creazione di un vero e proprio impegno sociale: non dobbiamo invecchiare, non dobbiamo ingrassare, dobbiamo nascondere le parti di noi che non si adeguano agli standard. Possiamo anche essere alternativi e non conformi, ma lo dobbiamo essere in una maniera esteticamente invidiabile.
E intorno al nostro aspetto, in ogni caso, deve poter essere costruito un mercato. L’idea comune di bellezza deriva, quindi, da un «mito» che influenza le nostre vite e i nostri corpi, ponendoci sotto il peso di un giudizio, di una vergogna e di un’ansia costanti verso il nostro aspetto, impedendoci così di dare spazio e attenzione a ciò che desideriamo davvero.