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L’economia italiana a bassa quota
L’economia italiana è la più debole di tutt’Europa, ci dicono inesorabili le previsioni d’autunno pubblicate ieri dalla Commissione. Come crescita del Prodotto interno lordo ci prepariamo a chiudere il 2025 con un +0,4%, anno in cui soltanto Austria e Germania vanno peggio di noi. L’anno prossimo e quello successivo accelereremo (i tecnici Ue prevedono che raggiungeremo un +0,8%) ma resteremo sempre in fondo alla classifica della crescita, mettendoci dietro soltanto l’Irlanda nel 2026 (però Dublino, sede europea delle multinazionali americane, quest’anno farà un incredibile +10,7%) e conquistando l’ultimo posto assoluto nel 2027. Dei ventisette Paesi dell’Ue siamo l’unico che in questi tre anni non vedrà mai il Pil aumentare di oltre l’1%.
Numeri sconfortanti quasi quanto le prestazioni della nazionale di calcio, di questi tempi. Se l’economia interessasse a noi italiani almeno un decimo di quanto ci tiene in ansia il pallone, sentiremmo parlare della stagnazione cronica nei bar mentre la gente ne litigherebbe su Facebook o nelle chat di Whatsapp. Invece sembriamo esserci un po’ abituati e anche un po’ rassegnati al fatto di vivere in uno dei Paesi con il tasso di crescita più fiacco del mondo, così ostinato a non crescere nonostante tutto. Prendiamo il Next Generation Eu, il grande piano europeo per risollevare l’economia dopo la devastazione del Covid: con il nostro Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) siamo stati il primo beneficiario, con 81 miliardi di euro in sovvenzioni e 127 miliardi di prestiti agevolati. Doveva essere la grande occasione per risollevare la vecchia economia italiana, forse davvero l’ultima.
Se lo era davvero, non l’abbiamo colta: i fondi europei hanno spinto la crescita italiana degli ultimi anni, come scrive la stessa Commissione nelle sue previsioni, ma ora vanno verso l’esaurimento. Tutto dovrà concludersi entro il 2026 e qualche pagamento arriverà ancora nel 2027. Ma già quell’anno l’effetto Pnrr sull’espansione del Pil terminerà e l’Italia resterà molto più sola con la sua non-crescita. È facile e anche piuttosto comodo prendersela con chi ci governa. Per come funziona il dibattito politico, non solo nel nostro Paese, sembriamo convinti che i governi abbiano una specie di “manovella” della crescita: se sono bravi sono capaci di azionarla e il Pil aumenta, altrimenti l’economia non va o, peggio, arretra. Ovviamente non è così semplice. Conta, ogni volta, il contesto internazionale, mentre gli effetti delle misure di politica economica che puntano a spingere la crescita in modo strutturale e non isolato non possono che vedersi negli anni. Noi viviamo ancora dentro una fase di rallentamento della produttività iniziata a metà degli anni ‘90 e mai terminata. Dal 2001 ad oggi il Pil dell’Italia ha segnato una crescita cumulata di circa il 4% contro il +30% dell’area euro. In questo quarto di secolo abbiamo avuto dodici governi. Se davvero esistesse la “manovella della crescita” nessuno sembra essere stato capace di azionarla.
I problemi che zavorrano il Paese ormai li conosciamo a memoria, perché più o meno tutti (dal Fmi alla Banca d’Italia, passando dall’Ocse) ce li ricordano periodicamente: bassa produttività, scarsa innovazione, aziende troppo piccole, invecchiamento demografico, eccesso di burocrazia, sistema giudiziario inefficiente, pochi investimenti. Una diagnosi resa molto più complicata da un debito pubblico che si è gonfiato fino a collocarsi stabilmente sopra i 3mila miliardi di euro e che riduce al minimo il margine di manovra dei governi. Lo vediamo piuttosto chiaramente anche nella legge di Bilancio approdata la scorsa settimana in Parlamento: una legge degna di un tempo di austerità a bassa intensità, che ha nel contenimento del passivo di bilancio, riconosciuto anche dalla Commissione europea nelle previsioni pubblicate ieri, uno dei suoi pochi punti di forza. Gli investimenti pubblici non abbondano (sono previsti al 3,8% del Pil) e gli incentivi ai privati nemmeno. Non possiamo permetterci molto di più, le risorse sono quelle che sono.
Abbatteremo il deficit, argineremo il debito, riceveremo altre promozioni dalle agenzie di rating e andremo probabilmente avanti così: vivacchiando in questa terra della crescita zero, aggrappati alle risorse che ancora abbiamo e arrabbiati per il welfare state che non riusciamo più a permetterci, per la sanità che non funziona e per i giovani che se ne vanno in Paesi dove la vita è più semplice. Davvero, per molti versi, l’Italia del Pil assomiglia sempre più a quella del calcio: torneremo ai Mondiali, se tutto va bene, ma di arrivare in fondo e vincerli – purtroppo – non se ne parla nemmeno.





