il nuovo romanzo
Virginie Despentes
Simonetta Sciandivasci
Virginie Despentes è una anarco femminista post punk. Timida. Francese. Non di quelle francesi che mangiano senza ingrassare e non si bagnano sotto la pioggia e stanno dalla parte del romanticismo anche quando è molesto. King Kong Theory, il suo libro considerato un manifesto femminista, cominciava così: «Io scrivo dalla sponda delle brutte, per le brutte, le vecchie, le frigide, le malscopate, le inscopabili. E inizio da qui perché sia chiaro: non mi scuso di niente, non vengo a lamentarmi».
All’inizio, con lei, la Francia è stata moralista: ha censurato, nel 2000, il film tratto dal suo romanzo d’esordio, Scopami (1993), che in Italia, sul sito della Commissione nazionale Valutazione film della CEI viene definito «inaccettabile, malsano». Il punto del film e del libro era raccontare che alla violenza sessuale si sopravvive se ci si attrezza per difendersi. «Ce l’ho con una società che mi ha educata senza insegnarmi a far del male a un uomo che mi apre le gambe a forza».
Despentes è stata violentata a 17 anni. Si è prostituita occasionalmente. Ha avuto una lunga storia d’amore con lo scrittore spagnolo transgender Paul B. Preciado e a 35 anni è diventata lesbica perché «Essere attratti da ciò che ci distrugge può essere eccitante ma è anche un handicap: ci esclude dal potere». È diventata presto un’autrice di culto. Ha abbandonato la commissione del Premio Goncourt con una lettera in cui spiegava di non voler più impiegare il suo tempo a far altro che libri. Nel 2020, quando alla cerimonia dei César, gli Oscar francesi, l’attrice Adèle Haenel lasciò la sala urlando «che vergogna!», perché era stato premiato Roman Polanski, lei scrisse: «È giunto il momento per i ricchi di sapere che il rispetto che gli è dovuto non soprassederà più sui loro cazzi macchiati del sangue e della merda dei bambini che hanno stuprato».
Anni fa si definiva «un elettrone libero» nella stessa intervista in cui quasi si rammaricava di non essere riuscita a fare qualcosa di più universale del partire da sé. Adesso ci è riuscita. In Caro Stronzo, il suo ultimo libro in uscita per Fandango, parla della sola relazione in cui si parte dagli altri: l’amicizia. Racconta di Oscar e Rebecca, uno scrittore travolto da uno scandalo sessuale e un’attrice che fa i conti con l’invecchiamento, che cominciano a scriversi durante il Covid dopo che lui l’ha attaccata su un social. Sono nemici, gatti feriti. Lui cerca conforto e non sa ammetterlo. Lei cerca allegria, pace. Lui sta disintossicandosi dall’alcol, lei ci è già passata. Lui spera lei capisca che lui non ha molestato nessuno. Lei gli farà cambiare sguardo. Si insultano, si sfogano, si legano. Fanno la cosa migliore che possono fare un uomo e una donna che vogliano farla finita con la guerra dei sessi: diventare amici. Che non richiede perdono e neppur e bellezza.
Con la tenerezza dura della sopravvissuta, Despentes si mette accanto agli uomini e racconta le conseguenze di qualcosa che ha postulato tempo fa: «Il capitalismo è una religione egualitaria: porta ciascuno a sentirsi in trappola».
Despentes, ha scritto un libro sull’amicizia o sull’odio?
«Sull’amicizia tra un uomo e una donna, un’esperienza che si racconta poco in letteratura. Oscar e Rebecca scoprono di potersi aiutare a vicenda perché l’amicizia ci può cambiare, ma in modo diverso da come fa una storia d’amore».
Cos’è l’amore?
«Non so rispondere, è una domanda troppo grande».
E l’odio?
«Con l’odio, come con la violenza, ho più familiarità. Ed è interessante perché è come le droghe, che a volte sono utili ma poi mangiano vivo te e tutto ciò che ti sta intorno. Fa ridere: ho più da dire sull’odio che sull’amore. Tutti vogliamo amare, ma in pochi siamo disposti a smettere di odiare. Purtroppo non è facile. Ho più di cinquant’anni e mi dico che l’odio può andar bene da giovani, ora è faticoso e mi piacerebbe odiare di meno».
Ci si dà il meglio solo dopo essersi dati il peggio?
«No. Ma per voler bene a qualcuno bisogna essere disposti ad accogliere il peggio».
È anche grazie all’odio che Oscar e Rebecca riescono a dirsi le cose come stanno, le cose come sono: la verità.
«L’amicizia è un posto in cui poter dire la verità. La seduzione cambia quello che vogliamo dall’altro e ispira una falsa rappresentazione di sé».
È così importante la verità?
«Certo. È grazie alla verità che si può cambiare. E il bello è che la verità su noi stessi è un concetto mutevole».
Oscar sembra più bisognoso di cambiare e meno capace di farlo. In generale, sembra sempre che gli uomini siano meno in grado di sbarazzarsi dei ruoli, delle recite.
«Oscar è indubbiamente il personaggio più irrisolto e confuso. Proprio perché è un maschio. La fragilità maschile è un punto cruciale».
Il femminismo deve occuparsene?
«Se per femminismo intendiamo l’analisi di quel che accade quando si viene trattati da femmina che lo si voglia o no, allora sì: deve occuparsi della fragilità maschile. È quella fragilità a far sì che gli uomini mostrino ostilità e violenza».
Alcuni anni fa, lei disse a “Vice” che non c’era niente di male nell’idea che il femminismo fosse di tutti. Lo pensa anche ora che è diventato mainstream?
«Sì. Non posso prevedere il futuro, ma sono curiosa di vedere che cosa faranno le prossime generazioni: giovani donne che sanno di avere diritto all’ambizione e all’intelligenza, che sanno di possedere la storia e anche il proprio corpo, che sanno di avere diritto a desiderare il denaro e il potere. Mi piace guardare i video delle giovani femministe su TikTok: l’effetto è straniante, ma anche elettrizzante. È un’esperienza di femminile e femminismo molto diversa da quella che ho vissuto io».
In Italia si parla tanto della sorellanza, il sostegno tra donne che si riconoscono unite da una storia di oppressione. Non rischia di essere limitante?
«Non abbiamo altra scelta che riconoscerci in una storia comune di oppressione. È l’unica identità femminile che conosco, non ce n’è un’altra. Ma è altrettanto importante riconoscere che esiste la solidarietà maschile, e che gli uomini si amano a vicenda: amano la mascolinità. Le donne devono cominciare a considerare se stesse sufficientemente importanti da potersi dire da sole: sono e valgo abbastanza».
Torno al libro. Rebecca e Oscar diventano amici scrivendosi delle lettere e non si incontrano mai. Questo cosa dice del corpo?
«Ho scritto il libro durante il Covid, mi interessava esplorare la vicinanza tra due persone al di là della prossimità dei corpi: come nasce un legame alimentato da tutto meno che dalla corporeità. Scrivo da sempre e penso che scriversi con un’altra persona dia la possibilità di conoscersi in modo speciale».
È vero che si fa sempre meno sesso? Lo abbiamo sopravvalutato, sottovalutato, o cosa?
«In Europa sono due decenni che cerchiamo di evitarlo, di eliminarlo dalla conversazione collettiva. Ormai appartiene alla religione, gliel’abbiamo restituito, è di nuovo zeppo di tabù e oscurità. Sui social si può pubblicare tutto ma non un capezzolo. Le ragazzine vengono prese di mira con la diffusione di video privati: perché dovrebbero vergognarsene? Nel porno il sesso gronda di violenza e sottomissione, senza allegria. E invece potrebbe essere un’espressione artistica felice, creativa».
È tornato il senso di colpa.
«Noi ci sentiamo molto in colpa per cose per cui non ha senso sentirsi in colpa e raramente ci carichiamo della responsabilità di un errore vero. Che poi è lo stesso principio per cui a lungo gli uomini si sono dati a vicenda il permesso di fare cose orribili, giustificandosi e coprendosi l’un l’altro».
È interessante la scoperta della sobrietà di cui a un certo punto Rebecca parla a Oscar.
«Volevo scriverne perché le droghe sono state molto presenti nella mia vita, e un momento cruciale per me è stato quando ne sono uscita. Mi ci è voluto parecchio tempo. La stampa francese non ne ha parlato granché, ma so che i lettori l’hanno colto».
La Francia ha diffidato del #Metoo, almeno all’inizio. E adesso?
«C’è forte resistenza: le femministe sono il male, la sinistra è il male, le donne che parlano sono il male. Chi se lo sarebbe aspettato dalla Francia? Eppure la maggior parte degli intellettuali sta cedendo a una specie di follia di estrema destra. Ci stiamo allontanando dalla democrazia, dalla nostra eredità filosofica e intellettuale».
Ha ragione Houellebecq quando dice che in Europa non si può più essere felici?
«Io sono felice in Spagna: c’è tanta bellezza ancora da vivere. E ho fiducia nei giovani».
Quando in “King Kong Theory” parlava di stupro, lei citava Camille Paglia, la prima a dire che dobbiamo accettare che venire violentate è un rischio inerente all’essere una donna. Non è stata proprio l’idea che si possa estirpare quel rischio a dare senso al #Metoo?
«Paglia parlava di un rischio di fronte al quale non abbiamo scelta. Il #Metoo ci ha mostrato quanto è grosso quel rischio. Paglia diceva: non si muore, si sopravvive, ma si ha il diritto di sopravvivere bene. Il punto del #Metoo è che non dobbiamo tacere, che possiamo condividere ciò che ci è successo così che si sentano libere di farlo anche altre donne. Eliminare la vergogna. Spazzare via il segreto».
Lei crede nell’empatia?
«È ganza. Significa mettere dei confini chiari tra sé e gli altri, convivere serenamente con la sensazione che qualcuno si metta comodo in uno spazio tuo, e sentire quel lasciarsi andare come una cosa anche tua. È una caratteristica che alcuni hanno e altri no e di certo non dipende dal genere».
Perché non parla mai della sua famiglia?
«Perché ho scelto di fare la scrittrice, ma non sono loro a doverne fare le spese. Siamo in ottimi rapporti, ma così come io ho avuto la libertà di intitolare il mio primo libro Scopami, loro non devono essere costretti a parlare di cosa scrivo con i vicini di casa».
C’è un dovere che sente di avere?
«Non mi sento in dovere di scrivere, ma quando parlo con i lettori che apprezzano i miei libri, capisco che provano cosa provo io verso alcuni artisti, quelli che mi fanno sentire vista e capita. Non sono molti. E allora finché avrò lettori che si sentono visti, dovrò continuare a scrivere».
L’ultima lettera che ha scritto per chi era?
«Coralie Trinh Thi, la ragazza con cui ho fatto il film tratto da Scopami. L’ho scritta a mano, un paio di mesi prima di cominciare Caro Stronzo. Mi ero resa conto che era diventato difficilissimo prendersi più di cinque minuti per sentire un’amica, così le ho scritto parlando di questa mancanza. Ed è stato un passo importante per arrivare a quello che poi è diventato il libro».
L’amicizia ci cambia, ma ci può anche salvare?
«Non si possono salvare le persone. Si può solamente decidere di esserci, di stare accanto agli altri quando la vita ce lo consente e lasciarli liberi di scegliere e sbagliare. Le infermiere non servono a niente».